venerdì 31 maggio 2013

Trentatre


"Ci hanno prese?"
"No, abbiamo passato soltanto la prima selezione."
Rosa in visibilio, Sara sinceramente felice, più per lei che per sè stessa, non poteva permettere che l'amica si facesse grandi illusioni.
"Domani sapremo davvero se è andata bene."
Rosa annuì, aveva ripreso colore ma non ancora la voce. Era come un sogno, uno splendido sogno.
Insieme le amiche s'incamminarono, lasciandosi alle spalle il vecchio teatro. Sara doveva andare alla scuola di ballo perché il lavoro l'attendeva, mentre Rosa non poteva tornare ancora a casa poiché i genitori la credevano al salone di bellezza ancora per un paio di ore.
Si diresse al bar "Trentatre" dove lavorava Marco, un ragazzo che le piaceva molto. Si conoscevano da anni ma non avevano un vero e proprio rapporto di amicizia. Rosa era sempre stata convinta di non essere abbastanza interessante per lui, ma quel giorno era diverso. Quel pomeriggio estivo la ragazza aveva la sicurezza di sé che le era mancata per il resto della vita. Erano ancora le quattro, poteva andare là, il bar sarebbe stato quasi vuoto a quell'ora e dirgli, sai, ho fatto un provino per entrare nel corpo di ballo i uno spettacolo teatrale e mi hanno preso. Da Settembre girerò l'Italia con la tournee di Romeo e Giulietta. E lui finalmente le avrebbe dato ascolto. Poi gli avrebbe potuto raccontare che le ragazze quella mattina erano tantissime e quasi tutte professioniste. Lei era molto emozionata ma riuscendo comunque a mostrare il meglio di sé era stata presa.
Vagheggiando si diresse a grandi passi verso il bar.
Non era assolutamente vero che era entrata nel cast, non ancora, ma una piccola soddisfazione era arrivata, la sua rivalsa iniziava il cammino. Basta sentirsi inferiore a tutte quelle ragazze che, come Viola, erano sempre capaci in tutto e ovunque suscitavano stima e ammirazione. Adesso anche lei aveva dimostrato di aver talento, finalmente le sue passioni non sarebbero considerate frivolezze.
Entrò al "Trentatre" e senza vedere nulla davanti a sé, se non un palco illuminato, si diresse al bancone. Marco era là, parlava concitato con una mora altissima dalle curve innaturali. Lei continuava a ridere come una sciocca alle parole del barista, e lui non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Non chiese neppure un caffè ed uscì.
Nuovamente una rabbia scura iniziò a farle vibrare l'animo, ma era una rabbia diversa a quella cui era abituata. Prima c'era l'impotenza di non riuscire a dimostrare le sue capacità, adesso no. Adesso che finalmente la sua autostima aveva qualcosa su cui far leva, nuovamente si vedeva sopraffatta da una ragazza che era più appariscente di lei ma sembrava a tutti gli effetti un oca, adesso la sua rabbia aveva il sapore amaro della consapevolezza.
Aspetta Rosa, sembrava dirle la sua rabbia, aspetta, poi vincerai.

mercoledì 29 maggio 2013

Il viandante

Dopo aver chiesto indicazioni non aveva incontrato più nessuno.
Adesso era solo, solo con il suo zaino e i suoi pensieri.
"Vedi laggiù c'è quella casa rossa?"
Aveva annuito.
"Prosegui lungo la spiaggia fino là, poi gira a sinistra. Dietro alla casa c'è un sentiero, devi seguire quello. Non ti puoi sbagliare, non ce n'è altri."
Aveva annuito di nuovo.
L'uomo con cui aveva parlato si era come disperso nell'immensità della spiaggia.
Se avessi saputo che la strada era così lunga mi sarei fermato a fare conversazione. Pensava l'uomo, che iniziava a sentirsi solo.
Le indicazioni le aveva ricevute da un vecchio, uno del posto a giudicare dalla strana inflessione che metteva su ogni parola. Aveva una lunga barba e procedeva gobbo, ma nei suoi occhi la luce della gioventù splendeva. Non importa, era sparito ormai.
La casa appariva lontana, tale e quale a quando era partito, piccola all'orizzonte. Eppure camminava da ore, da molte ore.
Non vedeva l'ora di arrivare là, alla casa, sarà come essere a metà, pensava. O forse no.
Adesso aveva il mare con la sua melodia amica, c'era la sabbia dai fini granelli e i gabbiani lontani, giù al porto.
Alla casa avrebbe dovuto girare in un sentiero, c'era solo quello. L'idea del sentiero di notte non lo allettava, stava calando la sera. 
Chissà quanto può essere lungo.
Cosa era più importante? Abbandonare quelle poche certezze che aveva, sperando di terminare il viaggio, o non terminarlo mai, rimanendo ancorato ad esse?

lunedì 27 maggio 2013

Consapevolezza


Era un giorno particolare, qualcosa nell'aria lo diceva. Eppure era iniziato come molti altri.
Giuseppe spense la fastidiosa sveglia e scese dal letto, bevve il caffè nell'angusta cucina tremando per il freddo.
Quando scese in strada una pungente pioggerella autunnale era là ad accoglierlo, prese tuttavia la bicicletta e pedalò fino all'ufficio.
La mattina trascorse lenta e inconcludente. come ormai era divenuta l'abitudine, non riusciva a focalizzare l'attenzione su niente se non su lei che, ahimè, non c'era più. Però Giuseppe non lo aveva ancora accettato, non comprendeva, continuava ad attendere qualcosa. Sapeva che la situazione sarebbe cambiata, sapeva, che parolone.
A pranzo si fermò con alcuni colleghi che conosceva poco, la conversazione languiva, tutti nei loro pensieri. Lui piluccò appena la sua insalata, giocò con il mais, guardò il rosso intenso dei pomodori.
Il caffè lo bevve amaro, e l'amaro lo trovò pressoché digiuno.
Nel pomeriggio le cose non andarono meglio, il digestivo a stomaco vuoto gli aveva lasciato una certa spossatezza e un cerchio alla testa che lo distraeva.
Attese le luci della sera e tornò a casa con la solita pioggerella del mattino. Prese una strada particolarmente lunga zigzagando tra vicoli e stradine del centro. Posticipava il momento di tornare a casa, il momento di rientrare nel piccolo appartamento all'ultimo piano, dove nessuno lo attendeva più.
Qualcosa sarebbe cambiato, lo sentiva, era come se una voce gli consigliasse di attendere la consapevolezza ancora un po'. 
Non era più certo che uscire da quell'etereo stato fosse un bene. Anzi.

venerdì 24 maggio 2013

Lenzuola


Era un sabato pomeriggio. Piuttosto grigio e freddo e lei era molto stanca.
La settimana era trascorsa lenta e faticosa, e il week end non si preannunciava dei migliori.
Aprì quel vecchio mobiletto e scartò l'involucro delle lenzuola nuove. Le avevano comprate insieme, a poco prezzo nel grande magazzino. Era un altro sabato freddo e grigio che non annunciava niente di buono.
Sentì tra le dita il tessuto e subito capì il motivo di quel basso prezzo, ma non se ne fece un problema. Sara non aveva una vita di qualità, non l'aveva mai avuta e non la desiderava. Tutti gli oggetti che la circondavano non erano di qualità, ci era abituata.
La stese sul letto e fece fatica con quel tessuto così fino, così leggero, così mediocre. Quando ebbe finito un sorriso apparve sul suo volto.
Quel chiaro colore invitante sembrava metterle a tacere tutte le sue paure, tutti i suoi dubbi, tutti i suoi pensieri. Era un colore chiaro che inondava l'intero ambiente di una serena speranza.
Era la speranza che le stava nascendo in petto e questa volta sapeva potersi fidare.

mercoledì 22 maggio 2013

Il bar


Anni fa era il mio bar preferito, abitavo in un'altra città, avevo un'altra vita. Era vicino casa, quella casa nella stretta via periferica, grigia di cemento, silenziosa di solitudine.
Il bar era all'angolo, pochi metri dal mio portoncino. Era un brutto bar, squallido e vecchio, con le pareti gonfie di muffa.
Era di un ragazzo con più anni di quelli che dimostrava, lo sguardo paffuto e gioviale di un bambino; per un periodo ci entrai tutte le mattine, sempre le stesse facce, le stesse brutte facce.
Era bello fare colazione là, lui sorrideva sempre a tutti. Qualunque cosa capitasse. Era un ragazzo molto sfortunato, ogni mattina gliene succedeva una. Lui non si demoralizzava, continuava a sorridere, tra lo scherno degli avventori. Mai si dimenticava che nel caffè voglio un goccio di latte. Me lo versava e sorrideva. Gioviale. Buono.
Poi cambiò tutto, persi il lavoro e non fu più tempo di fare colazione al bar, ma da lì davanti di passavo lo stesso.
Non ero più sua cliente, non importava. Lui sollevava il braccio e sorridendo mi salutava.

lunedì 20 maggio 2013

Stai bene?


  • stai bene?
Lei era preoccupata, il tono della voce la tradiva.
  • si tranquilla, sono solo un poì stanco.
Lui si muoveva nel letto con gli occhi chiusi.
  • misurati la febbre.
  • Figurati non è niente.
Ma lei lo sentiva caldo.
Si addormentò di colpo e fu un sonno agitato, parlava e chiamava qualcuno che lei non riusciva a capire. Lo svegliò di nuovo, piano piano, e trascorse del tempo prima che lui riuscisse a capire le sue parole.
  • erano solo incubi, non ti preoccupare.


    Non riusciva a leggere il cruccio sul volto di lei che insisteva per misurargli la febbre, per chiamare un dottore.
    Lui non ne volle sentir parlare, disse ti amo, addormentandosi di nuovo.
    Quelle furono le ultime parole che lei gli sentì pronunciare.   

venerdì 17 maggio 2013

Non vuole andar via


Entrai nella casa che era il tramonto. Lo feci in punta di piedi, sebbene sapessi che non c'era nessuno. Non accesi la luce, ma mi accontentai della penombra.
La casa era piena, trasudava vita da ogni poro. Dei molti oggetti sparsi in giro, tre mi colpirono con violenza.
Una bottiglia di birra, vuota sul tavolo, un barattolo di caffè vuoto in cucina, un bagnoschiuma, vuoto nella doccia. Finiti lasciati lì, a testimoniare una presenza che non vuole andar via.

La bottiglia. Vedevo due ragazzi a parlare fino a tardi, toni sommessi per non disturbare, complice la notte con la sua pace, magicamente più vicini di qualche ora prima.

Il caffè. Vedevo una donna con i movimenti impastati dal sonno, gli occhi chiusi come un gatto, i capelli arruffati dalla notte. Preparava un caffè con la poca polvere rimasta, colorava l'acqua di un colore vago, lontano parente di ciò che desiderava.

Il bagnoschiuma. Vedevo un uomo lavarsi con cura, per levar via il tepore del riposo. Finire la boccetta per allungare il piacere, ancora due minuti sotto questa acqua bollente.

Presi quello che dovevo. La bottiglia, il barattolo di caffè, il bagnoschiuma li lasciai là a testimoniare una vita che non vuole andar via.

mercoledì 15 maggio 2013

Incidente

Dovevo narrare un incidente. Cos'è un incidente? Solo una parola, dovrebbe essere facile. Eppure no. Come si narra un incidente? Qual'è la narrazione di un incidente?
È la descrizione di lamiere e fiamme con le sirene che arrivano e i curiosi che si apprestano attratti dall'eterno fascino del sangue. Sono i segni sull'asfalto, i verbali e le perizie. I titoli in prima pagina del giorno successivo.
È la storia di coloro che, confusi, in ospedale si svegliano? Senza ricordare, senza sapere come nè chi, senza sapere chi c'è ancora, senza sentire altro che un atroce dolore. Camere piene di fiori e cioccolata, che vedi da lontano con lo sguardo appannato.
È la storia di chi, seduto comodamente, ride e scherza, senza sapere cosa ci sarà dietro a quella curva. È la storia di un viaggio, come tanti altri, dal finale ancora non scritto.
È solo un momento, il momento dell'impatto, in cui i pensieri si confondono insieme. Paura, attesa del colpo, incredulità. E prima che arrivi un briciolo di speranza, è tutto nero, e non c'è più paura.
Forse è qualcos'altro, qualcosa di più, qualcosa che è meglio non narrare

lunedì 13 maggio 2013

La tecnologia

Sara si lasciò cadere sulla sedia, sentendosi totalmente priva di forze, inutile e stupida. Lacrime di illusione le irrigavano lentamente le guance. Che ironia.
Lei di sé aveva sempre avuto un'idea ben precisa, una donna forte che sapeva adattarsi a qualsiasi situazione. Si era sempre rimboccata le maniche, non aveva mai ceduto per niente, in ogni situazione aveva trovato il modo di venirne fuori.
Non esistevano problemi insuperabili nella sua vita e di problemi insuperabili ne aveva avuti molti. Adesso era diverso, adesso si sentiva sopraffatta, ma in fondo era tutto banale.
Da un mese viveva là, in quell'angolo di mondo sconosciuto dal signore e in quella casa si sentiva bene. Ma ormai era un mese e non aveva niente, né luce, né gas né telefono.
Viveva al freddo e doveva rinunciare alle cose più ovvie, niente lavatrice, né frigorifero, né televisore. Viveva rudimentalmente come tutti molti anni or sono.
Continuava a ripeterselo ma ciò non leniva il suo disagio. Beffa della vita. Si accorse così di essere stata viziata dall'esistenza, un vizio difficile da estirpare, un vizio che aveva molti nomi, comodità, tecnologia, normalità. Elettrodomestici, che parola lontana.
Già, in realtà Sara era inerme di fronte alla vita, non se lo sarebbe mai aspettato.
Trovato il suo ultimo barlume di coraggio, si alzò dalla sedia per affrontare quell'acqua assai fredda sulla pelle.

venerdì 10 maggio 2013

Campi di grano

- Fai la doccia o la faccio prima io?
-Tu devi ancora finire?
-Io posso andare avanti ad oltranza.
-Allora falla, poi vado io.
-Il bagno è freddo?
-Che stronza, vado.
E lei rimase là, senza sapere che fare, attendendo il suo turno e il bagno caldo. Il cane le si accoccolò sulle ginocchia, e pelosamente iniziò a russare. Lei prese in mano un libro ma non lo aprì, rimase un poco a fissare la copertina.
Lo aveva trovato in cantina qualche giorno indietro. Era in inglese, non sapeva a chi fosse appartenuto prima. L'immagine di copertina recava una bimba che correva su di un prato. Una gonna rossa e due trecce al vento. Bionde.
Le ricordava di sé e di quelle pazze corse dietro a rumori che non esistevano. Lei e Giorgio, il suo vicino di casa, due biciclette sporche di fango. Giorgio che correva con i cani e si arrampicava sugli alberi, lei che intrecciava margherite andava sull'altalena. Era bello essere bambini in campagna, tanti anni fa. Era bello crescere insieme al grano che matura, e ogni anno di nuovo. Era bello essere giovani e camminare al tramonto.
Poi Giorgio andò in America, lei via lontano e non si videro più. Cosa le mancava? Giorgio, la gioventù o i campi dorati? O i sogni lontani dimenticati da tempo?
Adesso rimanevano rughe di mezz'età e un uomo difficile, che c'era e non c'era, accanto a lei. Forse Giorgio la avrebbe potuto ritrovare. Chissà.
Lui uscì dal bagno, immerso nella spugna blu e fece in tempo a sentire il rumore della porta e sul divano rimaneva la forma di lei. Come saluto quel libro in inglese senza un padrone.

mercoledì 8 maggio 2013

La storia

L'uomo, con sé, aveva una storia; potete credermi, era una bella storia.
Non sapeva come era entrata in lui, ma era così.
Era un bambino e già la sua storia era lì dentro, nel piccolo corpicino vivace, non la voleva raccontare a nessuno perché lo avrebbero preso in giro, non la poteva scrivere perché scrivere non sapeva.
Divenne un ragazzo, e la storia crebbe con lui, ancora non la scrisse. Doveva maturare e la storia sarebbe maturata con lui.
Maturò dunque e lei insieme. Adesso sì che poteva scriverla, ma sapete, il primo lavoro, la prima macchina, la prima relazione, il giovane uomo era troppo occupato e tenne ancora la storia dentro.
Poi fu pronto, ma dovette partire; andò lontano fino in America, e si portò dietro la storia.
Tornò che era un uomo e la moglie lo seguiva, ignara della storia che li accompagnava. Lui allora pensò che non era il momento, non parla di lei, ne rimarrebbe delusa.
Poi furono i figli e lui si occupò di badare a loro. Essi crebbero, e l'uomo si ricordò della storia, sempre lì, fedele al suo fianco.
La moglie, meno fedele, se ne andò e fu la volta della salute che prese il volo.
Appena starò meglio la scrivo, pensava l'uomo, dal suo letto.
Ma con la salute arrivarono i nipoti, e non ci fu più tempo.
Divenne cieco e la mano prudeva, per quella storia non scritta.
Decise di raccontarla a Gioia, la nipote più cara, ma attese ch'ella fosse cresciuta. Gioia, bella ragazza oramai, voglia non aveva più di ascoltare il nonno.
Ieri quest'uomo è morto, portandosi con sé la sua storia.
Credetemi, era una bella storia.

lunedì 6 maggio 2013

Venti anni dopo

Giocavano insieme nei prati, pedalavano su biciclette vecchie in mezzo al fango, si dividevano pane e salame per merenda, più tardi si raccontarono i primi dubbi di cuore.
Carlo e Michele crebbero insieme, poi l'uno partì e l'altro rimase.
Trascorsero venti anni, forse di più, molte cose erano ormai mutate.
Carlo aveva una piccola casetta in un quartiere di periferia, una moglie dal viso dolce e due bambini biondi. Tornava dalla fabbrica tutte le sere e sapeva che una buona e calda cena lo attendeva, nella sua piccola e accogliente casa con la sua semplice e amata famiglia.
I giorni si assomigliavano tutti, ma a lui così piaceva.
Michele tornò in città e andò a cercare il suo vecchio amico. Indossava pantaloni firmati e una giacca troppo seria, le scarpe erano lucide di cera. Parlava di trend di brand e di altre parole che Carlo non capiva. Era diverso da come lo conosceva.
Carlo lo accolse nella semplice casetta, quei mobili rustici lo mettevano a disagio, quella donna gentile lo metteva in soggezione e a quei bambini vivaci non sapeva come parlare.
Un tempo il loro mondo era lo stesso, fu Michele a invidiare l'amico.