venerdì 12 luglio 2013

Rosa


Ancora la luce pomeridiana invadeva la casa, si sedette Rosa, crollando il corpo inerte, nella poltrona sotto la finestra. Lentamente prima, sempre con più foga poi, disperatamente infine, proruppe in un pianto che non aveva eguali. E continuò sotto il cielo arrossato del tramonto, e continuò quando tutta la stanza fu invasa da una tiepida oscurità. Nonostante qual pianto la margherita tra i suoi capelli resisteva.
Quando le lacrime si furono asciugate rimase solo un gran freddo un gran vuoto che faceva paura e troppe domande che non davano tregua.
Andò in cucina e si preparò un caffè; ascoltava l'acqua bollire e ancora due lacrime scesero sulle sue guance. Tutto il dolore che aveva covato negli ultimi mesi oggi esplodeva, solo oggi si rendeva conto di quanto grande fosse la sua angoscia, oggi aveva aggiunto l'ultimo tassello e non aveva più il coraggio di guardare quell'immagine.
Versò nella sua tazza preferita una generosa dose della bevanda nervina, aspettando di calmarsi. Sobbalzò invece, come morsa da serpente, quando il suo cellulare notificò l'arrivo di un messaggio. Tramando lo lesse, sperando e non sperando insieme, Guido, il marito, avrebbe tardato in ufficio, aveva più tempo per pensare a cosa fare.
Dopo quel pomeriggio doveva accantonare l'idea di far finta di niente, ci aveva provato, aveva tentato per mesi, ma adesso tutto era peggiorato. Non si poteva più. Per un attimo, ma fu un attimo solo, balenò a lei l'idea che era una scelta già fatta, e già sbagliata. Poi la soppresse.
Nuovamente, e con insistenza, il pensiero di raggiungere la sorella a Stoccolma, Viola la maggiore, era difficile impedirselo, Viola quella perfetta, non voleva fuggire così, Viola che avrebbe saputo come comportarsi.
Forse l'unica azione possibile era parlare con lei. Già, ma cosa dire? E perché poi? Cosa avrebbe voluto ottenere?
Rosa guardava il vuoto cercando suggerimenti forse dalle mute lampade, e ancora quel senso di irrealtà invase ogni sua cellula, come sangue scorrendole nelle vene. Possibile che fosse la stessa persona? Meno di un anno fa quella foto sulla libreria. A metà tra Joyce e Stendhal. Il leggero vestito azzurro sulla pelle abbronzata, quel corpo da quarantenne che quarant'anni non li sentiva, quel sorriso puro e genuino come il sole pronto a sbocciare in ogni dove. Al braccio del marito nella sera di tarda estate, passeggiando tra le vie della città deserta.
Dopo quindici anni di matrimonio erano felici e spensierati, ciò a loro ovvio pareva. Lui noto avvocato, lei insegnante di ballo in una scuola in centro. Abitavano una villa vicino ai Parioli, e nulla più avrebbe chiesto dalla vita. L'amarezza di quando aveva scoperto di non poter aver figli era svanita, rimanevano solo un marito che amava e un lavoro meraviglioso. Anche il contrario. Le bambine, con le loro scarpette e i loro tulle le regalavano un briciolo di quell'amore materno che lei mai avrebbe provato; inventare le coreografie nei corsi serali la illudeva di poter volltegiare ancora, come se la sua gamba stesse bene. E poi le serate cui il marito la conduceva, cene di gala con illustri signori, per in tarda serata finire, loro due soli, in squallidi bar di periferia, a bere e parlare. Come due adolescenti innamorati, l'alba seduti su di un prato.
Niente più di tutto ciò.
Avrebbe voluto cancellare i suoi ultimi vent'anni di vita o poco più.
Tutto ma non lui.
Cominciò tutto che era una ragazzina.

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