Ancora la luce pomeridiana invadeva la
casa, si sedette Rosa, crollando il corpo inerte, nella poltrona
sotto la finestra. Lentamente prima, sempre con più foga poi,
disperatamente infine, proruppe in un pianto che non aveva eguali. E
continuò sotto il cielo arrossato del tramonto, e continuò quando
tutta la stanza fu invasa da una tiepida oscurità. Nonostante qual
pianto la margherita tra i suoi capelli resisteva.
Quando le lacrime si furono asciugate
rimase solo un gran freddo un gran vuoto che faceva paura e troppe
domande che non davano tregua.
Andò in cucina e si preparò un caffè;
ascoltava l'acqua bollire e ancora due lacrime scesero sulle sue
guance. Tutto il dolore che aveva covato negli ultimi mesi oggi
esplodeva, solo oggi si rendeva conto di quanto grande fosse la sua
angoscia, oggi aveva aggiunto l'ultimo tassello e non aveva più il
coraggio di guardare quell'immagine.
Versò nella sua tazza preferita una
generosa dose della bevanda nervina, aspettando di calmarsi. Sobbalzò
invece, come morsa da serpente, quando il suo cellulare notificò
l'arrivo di un messaggio. Tramando lo lesse, sperando e non sperando
insieme, Guido, il marito, avrebbe tardato in ufficio, aveva più
tempo per pensare a cosa fare.
Dopo quel pomeriggio doveva accantonare
l'idea di far finta di niente, ci aveva provato, aveva tentato per
mesi, ma adesso tutto era peggiorato. Non si poteva più. Per un
attimo, ma fu un attimo solo, balenò a lei l'idea che era una scelta
già fatta, e già sbagliata. Poi la soppresse.
Nuovamente, e con insistenza, il
pensiero di raggiungere la sorella a Stoccolma, Viola la maggiore,
era difficile impedirselo, Viola quella perfetta, non voleva fuggire
così, Viola che avrebbe saputo come comportarsi.
Forse l'unica azione possibile era
parlare con lei. Già, ma cosa dire? E perché poi? Cosa avrebbe
voluto ottenere?
Rosa guardava il vuoto cercando
suggerimenti forse dalle mute lampade, e ancora quel senso di
irrealtà invase ogni sua cellula, come sangue scorrendole nelle
vene. Possibile che fosse la stessa persona? Meno di un anno fa
quella foto sulla libreria. A metà tra Joyce e Stendhal. Il leggero
vestito azzurro sulla pelle abbronzata, quel corpo da quarantenne che
quarant'anni non li sentiva, quel sorriso puro e genuino come il sole
pronto a sbocciare in ogni dove. Al braccio del marito nella sera di
tarda estate, passeggiando tra le vie della città deserta.
Dopo quindici anni di matrimonio erano
felici e spensierati, ciò a loro ovvio pareva. Lui noto avvocato,
lei insegnante di ballo in una scuola in centro. Abitavano una villa
vicino ai Parioli, e nulla più avrebbe chiesto dalla vita.
L'amarezza di quando aveva scoperto di non poter aver figli era
svanita, rimanevano solo un marito che amava e un lavoro
meraviglioso. Anche il contrario. Le bambine, con le loro scarpette e
i loro tulle le regalavano un briciolo di quell'amore materno che lei
mai avrebbe provato; inventare le coreografie nei corsi serali la
illudeva di poter volltegiare ancora, come se la sua gamba stesse
bene. E poi le serate cui il marito la conduceva, cene di gala con
illustri signori, per in tarda serata finire, loro due soli, in
squallidi bar di periferia, a bere e parlare. Come due adolescenti
innamorati, l'alba seduti su di un prato.
Niente più di tutto ciò.
Avrebbe voluto cancellare i suoi
ultimi vent'anni di vita o poco più.
Tutto ma non lui.
Cominciò tutto che era una ragazzina.
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