venerdì 28 giugno 2013

Ingannarsi


L'acqua calda sulle candide mani scivola via veloce, impiega molto tempo per sciacquare le poche stoviglie della sera, prima di riporle nella lavapiatti.
Lui è già al piano superiore; Ilary indugia in cucina.
Questa sera sembrava affettuoso, una strana luce, un idea che gli rimbalzava nel cervello. Non si è fermato nella palestra, non è andato dritto nello studio.
Stiamo troppo poco tempo insieme, le parole, tono studiato, mentre lei preparava un Martini per entrambi, come soleva fare nei primi mesi del loro matrimonio, prima di divenire trasparente.
Penso di lasciare il giornale.
Lei sapeva che il motivo era l'insoddisfazione di lui in redazione. Si era seduto, spostando malamente il romanzo della moglie.
Sarebbe tornato a essere free lance? Ilary non dubitava che in quel caso tra loro sarebbe stato anche peggio. Viaggi interminabili, impegni mondani, notti trascorse lavorando su un singolo scatto.
Ho avuto un'idea che risolverà tutti i problemi tra noi; lei aveva annuito portandosi alle labbra il proprio bicchiere. Docile, come sempre; docile, come era stata dall'inizio.
Si erano conosciuti anni prima, lui a New York per uno dei suoi tanti viaggi di lavoro, le missioni come li chiamava. Lei lavorava ancora nella piccola pasticceria di famiglia, era stata una sciocca, aveva creduto a tutto ciò che l'uomo le aveva detto. Ammaliata dal fascino italiano, si era fidata, lo aveva seguito. Poi aveva visto dissolversi quelle promesse, nebbia dietro a un obbiettivo. Ancora si chiedeva perché, perché era finita là, chilometri e chilometri dalla sua casa, dal suo paese, perché non se ne andava. Non lo sapeva, accettava con amarezza quella vita da bambola, sperando, un giorno, di avere la forza per preparare le valige. E questa volta per sempre.

Adesso questa nuova notizia.
Un'ennesima partenza, lui solo ovviamente. Sarebbe giunto in Senegal, non sapeva quanto si sarebbe trattenuto, poi tutto sarebbe cambiato.
Non le aveva spiegato il motivo.
Sconforto lontano, ammantava la serata.
Nel momento in cui Giacomo aveva lasciato il lavoro da free lance per farsi assumere nella rivista, le stesse parole o quasi. Lei ci era caduta. Non starò mai più sola, non sarà più preso così dal lavoro, saremo felici insieme.
Questa sera no, nel cuore della giovane non c'è più la forza di ingannarsi.

mercoledì 26 giugno 2013

La camera di Michela


Ho visto la sua camera, è una camera spaziosa, arredata in colori chiari. In una parete un grande quadro con decine di fotografie, una bambina bionda che spegneva le candeline, sempre bionda un poco più grande su di una bicicletta rosa, al mare con le amiche è davvero bella, foto di scuola e di feste passate. Un sorriso che mai si cheta.
Una foto più grande è sulla parete, il suo cane con la lingua di fuori, un poster americano sull'anta dell'armadio, un pupazzo, sopra una mensola, di quando era piccola.
Sulla scrivania un libro si storia aperto a pagina 53, qualche CD e una penna mangiucchiata. Sul comodino una lampada a forma di labbra, un portamonete consumato e una boccetta di profumo. Le ciabatte ai piedi del letto vicino a un libro chiuso. Per terra.
Questa è la stanza di Michela, sono cinque giorni che nessuno la vede.

lunedì 24 giugno 2013

Un uomo cammina agile


Nell'affollata strada serale un uomo si confonde tra gli altri; cammina agile, passo dinoccolato, lo sguardo fisso al suo obbiettivo. La mascella serrata contorce in una smorfia, quel viso assai bello. Bello sì, ma un bello antipatico, snervante, una bellezza presuntuosa che di armonico non ha nulla.
Attraversa la strada senza guardare, urta i passanti e non si volta, è inghiottito dai rumori ma non vi presta caso. Sembra assorto nei suoi pensieri ma non è così, rimugina i suoi pensieri, il che è diverso.
Molto diverso. È cattivo.

Lui è Giacomo, un uomo triste, un uomo che, nonostante il suo grande successo, è insoddisfatto. Dopo quel primo grande boom, e a quei tempi era solo un ragazzo di talento, l'escalation alla fama non si era fermata, una belva che ha sentito l'odore del sangue; quanti viaggi, quanti scatti, quante soddisfazioni, lui non era mai pago.
Ricordava tutti i sorrisi alle premiazioni, quei gesti così meccanici per mascherare il suo disprezzo verso gli altri fotografi. Ogni premio, ogni applauso, ogni sorriso era un gradino in più. Lui doveva diventare il migliore. La gloria avrebbe cancellato quel senso di vuoto che sentiva da sempre, avrebbe sopperito alla sua solitudine. Avrebbe preso una rivincita verso coloro che non lo avevano mai amato, verso coloro cui non era mai riuscito a farsi amare. Avrebbe dimostrato di essere il più grande.
Solo quello voleva.
E ci stava riuscendo? Ovvio, che ci stava riuscendo; anzi, durante il suo ultimo viaggio negli States, aveva conosciuto la più dolce e sexy ragazza americana e l'aveva sposata.
Lui non era solo bravo, era bello, e fortunato. E nuovamente si rodeva per riuscire a fare invidia agli altri fotografi. I neri capelli si erano ingrigiti per lo stress, ma si consolava bene; la sua bellezza non veniva sminuita, brizzolato ed occhi azzurri, evocava un certo fascino.
Neppure trent'anni, una villa da sogno, un matrimonio da film, e continuare a girare il mondo per aumentare fama e soldi. Non bastava mai.
Già a quei tempi non era felice, doveva ammetterlo, sarebbe stato questione di mesi, forse anni, prima o poi avrebbe raggiunto il massimo successo, quello che desiderava. Continuava a porsi obbietivi, raggiungerli, ed ecco che altri apparivano davanti, una corsa folle senza fine.
Poi... quel grande errore!
Ilary, la mogliettina a stelle e strisce, sembrava così triste per tutte quelle assenze, per dover rimanere sempre al secondo posto, per quell'insensata e continua fame di gloria che lo accecava in tutto il resto. Decise di lasciare la vita da free lance e farsi assumere nella redazione del miglior mensile della città. Le riviste se lo contendevano, quasi un piacere sessuale.
Si era convinto di ambientarsi bene.
L'ultimo arrivato e già tra i primi per importanza, gli altri fotografi che non valevano nemmeno il suo alluce sinistro, giornalisti che lo avrebbero pregato di curare i loro pezzi... Illuso; quella bramosia, che neppure prima si spegneva, adesso bruciava di fiamme infernali.
In più Ilary non sembrava troppo felice per il cambiamento.
Tornava a casa e si chiudeva nella sua piccola palestra domestica, o in uno dei suoi studi, cercando di placare quel fuoco e di capire perché quella stupidella della moglie era triste. Lei, intanto, lo sentiva rincasare, ma non poteva godere della sua compagnia, e ancora più triste l'espressione si disegnava nel suo volto.
Infine, la redazione; Giacomo non la sopportava più.
Si ostinava a lavorare da solo, teneva lontani tutti, non si piegava alle richieste dei superiori, litigava con il direttore, considerava i colleghi poveri idioti, preoccupati solo dalle loro piccole banalità; la cena di redazione, i regali di Natale, la partita di calcetto, senza pensare a quello che è davvero importante, la fama e il successo.
Pochi mesi, lui è già allo stremo.
Quasi giunto a casa, un isolato o poco più, un sorriso si apre sul quel volto sempre teso, accelera l'andatura, si concede il lusso di fischiettare; un idea ha appena preso forma nella sua mente.

venerdì 21 giugno 2013

La prova


Si alzò in piedi una donna e aspettò che fosse fatto perfetto silenzio prima di iniziare a parlare. Durò un minuto, o poco più, ma sembrò interminabile. Era anziana, molto alta e magra, con un'espressione severa sui lineamenti tirati. I grigi capelli raccolti in una crocchia sulla nuca sembravano farla uscire da un romanzo inglese per bambini, nella veste della governante arcigna.
Rosa non aveva molta voglia di ridere sull'immagine che le veniva in mente.
La governante disse che per entrare a far parte del corpo di ballo di Romeo e Giulietta erano necessari molto talento e passione, nonché un costante impegno durante la tourneè. Quindi chi non se la sentiva poteva andarsene direttamente a casa.
Nessuna delle ragazze si mosse.

Chiese loro di fare un passo in avanti, una alla volta, dire il proprio nome e interpretare a proprio piacimento le musiche che venivano proposte. Ogni ragazza aveva a disposizione un minuto e mezzo, con trenta secondi di ogni base. Una volta terminata l'esibizione dovevano allinearsi nuovamente dall'altro lato del palco.
La donna si sedette e la prima ragazza avanzò di un lungo passo; Rosa era terza nell'ordine cui si erano disposte. La ragazza si chiamava Serena e aveva lunghi boccoli biondi, iniziò a ballare un pezzo classico con una maestria assoluta. Sembrava che ogni parte del suo essere partecipasse in quei passi, quando la musicò cambio, sostituendosi in un pezzo country, la ragazza non ebbe un attimo di esitazione, e con analoga maestria iniziò a interpretarla.
Rosa smise di guardare nella sua direzione, quella bravura ostentata con tanta naturalezza la infastidiva e si emozionava ancora di più. Lei non era assolutamente alla medesima altezza.
Poi fu la volta di Clara, una piccolina bruna, e Rosa neppure si girò a sbirciare la performance. Continuava a guardare un punto davanti a sé pensando che avrebbe dovuto ballare. 
Ballare, nient'altro.

Venne il suo turno, con voce insicura disse il suo nome, Rosalina, e aspettò la musica. Il pezzo classico non le piacque e avanzò sgraziata i primi passi, per acquisire sempre più fiducia e iniziare a farsi davvero trasportare dalla musica. Quando il tempo a sua disposizione finì le sembrò troppo poco, era tuttavia abbastanza soddisfatta. Come prima volta non era andata malissimo, aveva temuto di non riuscire di avanzare un passo. Raggiunse Serena e Clara e attese le compagne in uno strano stato di trance, senza guardare nemmeno l'esibizione di Sara.
Quando furono di nuovo tutte allineate la governante inglese prese nuovamente la palla. Le ringraziò a tutte per la disponibilità e chiese a Serena, Rosa e Sara di ripresentarsi anche l'indomani perché erano tra coloro che sarebbero state prescelte.

Sara dovette sorreggere l'amica fino all'aria aperta

mercoledì 19 giugno 2013

La lettera


Ho sbagliato, l'ho capito. Ogni gesto di quei mesi è stato solo un errore. Quello che volevo eri tu, sei tu, ma ogni cosa, ogni singola azione, non ha fatto altro che allontanarci. Anche se le compievo col cuore, anche se erano le strade che credevo mi avrebbero portato da te.
Lo so, non ci credi. Potevi pensarci prima, dicesti, hai sbagliato ogni cosa, mi hai accusato, mi hai perso per sempre, quante volte mi hai minacciato.
Poi un'altra possibilità, un altro mio errore, ogni volta temevo che fosse l'ultimo che mi concedevi. Poi quello fatale che ti ha fatto scappare, che ti ha fatto voltare le spalle, questa volta per davvero. Ed io a piangere e ad aspettare un tuo ritorno che mai c'è stato e mai ci sarà. Lo volevo più di quanto si può volere, ma ma il coraggio di chiedertelo ho avuto.
Ce l'ho anche ora, anche se temo che sia troppo tardi...

e in quel punto, praticamente alla fine, la penna smise di scrivere, finì l'inchiostro e morì.
Quel briciolo di barlume, simulacro di coraggio, le fuggì di mano, come la penna inerte tra le dita. Cambiò idea e non terminò la lettera.
Ancora se ne pente, ma ora è tardi. Allora non lo era.
Accadde così.

lunedì 17 giugno 2013

La redazione


La grande stanza caoticamente ordinata, brulicante e indaffarata, gioviale e stressata, accogliente e asettica, familiare sì e no.
Via Della Cenere, un viale alberato della capitale, al numero 38 una palazzina di sei piani in stile liberty. Quattro di questi piani, gli ultimi quattro di questi piani, sono occupati dagli uffici della redazione del noto mensile.
Ore 12:30 di una tiepida mattina di Maggio, andiamo.
Uomini brizzolati, ma dall'aria giovanile, scrivono con la testa china e lo sguardo fisso nei loro pensieri, giovani stagiste dalla pelle fresca scivolano tra le scrivanie con tonnellate di fotocopie, due redattori chiacchierano, in coda alla macchinetta del caffè. Imbevibile, come in ogni altro ufficio di quella città.
Un telefono squilla e la risposta non si fa attendere, squilla un secondo e il suono si perde tra i tanti suoni del locale.
I colori sono chiari, la luce che entra dalle veneziane accarezza i tavoli, lievemente, come per non essere troppo invadente. Una segretaria prende appunti, al suo fianco, il giornalista appena assunto rilegge il suo pezzo.
Lentamente, la redazione inizia a svuotarsi.
Si allontanano a gruppetti, parlando del più e del meno, lasciano vuote le scrivanie, che vuote non sono, ad attenderli. Alcuni devono ancora alzarsi, intenti in qualche compito impegnativo, altri sono già tornati, una riunione per i redattori della sezione viaggi è in programma per le 13, due ragazze, poco più che bambine hanno sgranocchiato una mela, nel corridoio parlando fitto, passano due uomini, diretti non saprei, con sonora voce commentano una partita di calcio.
Questa è la redazione in cui lavora Giacomo, in un'imprecisata giornata di metà settimana.

venerdì 14 giugno 2013

La valigetta


A pensarci ora sembra quasi ridicolo, ma quella mattina ebbi davvero paura.
Ero partito per un viaggio di affari. Solo, sebbene fosse molto, molto lontano, sebbene fossi assai giovane e il mio viso pulito sembrava quello di un ragazzino. Sebbene le tensioni internazionali fossero forti.
Dovevo fare scalo in una città dimenticata, sconosciuta ai più e a me, fece ritardo l'aereo e io mi ritrovai là, ci fu un disguido e io mi trovai a passare la notte in quel luogo deserto.
Mi armai di un libro e di molti caffè, le ore trascorrevano lente e la mia stanchezza mi confondeva le idee.
Albeggiò e pian piano la sala d'attesa ricominciò a popolarsi. A me si avvicinò un giovanotto, la faccia scura e una 24h nella mano destra.
Me la tieni? Vado in bagno.
Pronunciò le parole in un goffo inglese.
Annuii tranquillamente, sbadatamente direi.
Attesi a lungo e quello non tornava. Non so se fu il sonno che mancava, o sarebbe successo ugualmente, un sudar freddo mi invase la schiena, e un panico assoluto mi catturò.
Iniziai ad essere convinto che fosse una bomba, non avevo effettivamente controllato che fosse entrato nella toilette. Nessuno oltre a me era testimone.
Potevo dare l'allarme.
E se non lo era? Tralasciamo la figura che avrei fatto, in quel paese dove non conoscevo la lingua. A che pro scatenare tale allarmismo? Gli animi era abbastanza tesi, in quelle settimane, non c'era motivo che io, per un nulla facessi scattare l'allarme, però...
avevo paura, contavo i minuti, i secondi, salutavo in cuor mio chi avevo più caro.
L'uomo tornò, mi sentii un idiota, ma quell'analisi di coscienza mi fece in fondo assai bene.

mercoledì 12 giugno 2013

Il programma


Aveva tutto in mente, nitido e preciso come una fotografia. Sarebbe arrivato là dopo una piacevole passeggiata, nel chiaro pomeriggio desolato.
Poi si sarebbero recati al parco e avrebbero percorso quei viali come molte altre volte, come la prima volta che si erano conosciuti. Per riposarsi si sarebbero seduti su di una panchina davanti al laghetto e lei avrebbe voluto un gelato, anche se non era la stagione. Fragole e lampone, come ogni volta. E come ogni volta si sarebbe sporcata. Probabilmente in testa avrebbe avuto quel cappellino grigio, quello che a lui piaceva tanto.
Magari dopo avrebbe giocato con i cani di passaggio e conversato con i loro padroni, come tante volte era successo.
Per tornare a casa avrebbero imboccato il lungo vialone alberato, certamente dorato in questo mese d'autunno. E con le foglie sotto i piedi avrebbe giocato come la bambina che si portava dentro. E avrebbe sorriso, perché lei sorrideva sempre.
Poi l'avrebbe perdonato e lui sarebbe entrato di nuovo a far parte della sua vita.
A questo pensava nel tiepido dormiveglia che cullava il suo risveglio, un cieco ottimismo gli aveva infuso la notte. Si alzò con il cuore carico di speranza e la mente di progetti.
Scoprì che stava diluviando.

lunedì 10 giugno 2013

Giacomò


Ad attenderlo all'aeroporto c'era, come nei programmi, l'autista. Trattasi, costui, di un ragazzo del luogo, con sulle guance una morbida peluria.
Giacomo, sulle prime, dubitò fortemente che sapesse guidare un automobile; parlava in italiano stentato, ma con un accento veramente buffo, capiva tuttavia alla perfezione ogni parola e si reggeva in piedi su due gambette fine fine, da gazzella.
Per pochi spiccioli Giacomo si assicurò il suo supporto per tutta la durata del soggiorno. E veementemente lo pregò, influenzato forse da film di bassa lega, di non chiamarlo Capo. Il ragazzo lo guardò stupito, non avendone mai avuta la benché minima intenzione. Lo chiamava altresì Giacomò, non riuscendo a pronunciarne il nome senza quell'accento sull'ultima sillaba. Un'altra persona ne avrebbe riso; il fotografo ne era invece visibilmente seccato. Il ragazzo non se ne accorse, o non lo diede a vedere. Partirono alla volta dell'hotel, nell'area centrale e occidentalizzata della città; Amadou, così aveva detto di chiamarsi il ragazzo, alla guida e Giacomo accanto.
Durante i primi giorni il fotografo non si recò al lago, ma decise di visitare Dakar, seguito dal docile Amadou. Passeggiavano tra i viali polverosi, passando di mercato in mercato, e il ragazzo soddisfaceva tutte le curiosità dell'italiano. La sera Giacomo, sdraiato nel letto della moderna e confortevole camera, mentre lottava con le zanzare, che nel paese sembravano essere sovrane, ripensava alle nozioni apprese. Rimembrava le ritmiche musiche udite lontano, i profumi che provenivano da ogni dove, i colori sgargianti, le stoffe variopinte dei commercianti. Doveva entrare nell'ottica del luogo, respirarlo a fondo, prima di vederne i colori e poterne fotografare l'essenza.
Dopo quattro giorni si sentì pronto e chiese ad Amadou le indicazioni stradali per giungere al Lago Rosa.
Quando partiamo Giacomò?
Fu la pronta risposta del ragazzo.
Non partiamo, vado da solo.
Giacomo non si sarebbe mai immaginato di dover discutere riguardo ciò con quel ragazzetto. Amadou non voleva assolutamente lasciarlo partire solo. Adduceva mille motivi, alcuni dei quali chiare fandonie. È pericoloso. È facile perdersi. Non è un posto per turisti non accompagnati. Potrebbero esserci animali feroci lungo la strada. Giacomo, ovviamente, non si piegò.
La mattina seguente Amadou gli consegnò le chiavi della vecchia jeep e il fotografo partì con la fedele reflex al seguito. Il ragazzo aveva avuto, in parte, ragione; la strada era accidentata, per percorrerla impiegò molto più tempo del previsto.
Durante il percorso continuava a rimuginare sull'arroganza del suo accompagnatore. Non ho bisogno di nessuno. Sono il migliore nel mio campo, non devo aver seguito quando fotografo. Arriverò completamente solo alla gloria.
Lo spettacolo che lo attendeva valeva più di qualsiasi strada accidentata.
Tutto come si era immaginato, forse meglio. Gruppi di uomini già inmersi, con i loro bastoni per recuperare il sale dai fondali, cumuli salini alle rive con cartelli indicanti il nome delle famiglie di appartenenza, tour guidati lungo le sponde zigzagavano tra essi, bambini affamati, a frotte, che tentavano di vendere ogni sorta di souvenirs.
Il fotografo iniziò a vagare, cercando l'angolatura da cui svolgere il suo lavoro; i ragazzini non attesero molto prima di affollarglisi intorno. Solitamente i turisti compravano sempre qualcosa da loro, quest'uomo qui era diverso. Li scacciava in malo modo, non capivano le parole ma il tono offensivo era inequivocabile, un paio si guadagnarono anche un calcio negli stinchi, per esser stati troppo insistenti, e imprudenti da essersi troppo avvicinati.
Alcune ore dopo; Giacomo si era fermato a riposare, stremato dal sole che, con il riverbero delle rosee acque, era insopportabile. Trovò riparo sotto alcune frasche, garantivano almeno una magra ombra. Fu allora che i ragazzini tornarono a lui intorno; in un impeto d'ira si slanciò verso uno di essi, mentre la sua adorata reflex dolcemente scivolò nelle mani di un'altro del gruppo, un piccoletto ricciolino, come tutti in quel luogo d'altronde, che fuggì con animalesca agilità.

venerdì 7 giugno 2013

Indugiare


Linearmente complesso, o complicatissimo in modo semplice, scegliete voi.
Aveva chiuso per sempre con il suo passato, quel passato così scomodo, così pesante, così dififcile da nascondere. Aveva dato un taglio netto e ci era riuscito, preciso, secco.
Aveva una nuova vita e ne era felice, niente del prima turbava il suo mondo. Aveva anche un progetto, immenso, bello, e per di più realizzabile. Sì, Marco ce la poteva fare, non era una delle sue chimere impossibili. No, questa no, questa volta i suoi desideri sarebbero potuti diventare concreti.
Trascorse del tempo, ma non faceva miglioramenti, non si avvicinava neanche di un passo alla meta. Eppure era lì, vicina e tangibile.
Marco, ormai lo conoscete anche voi, aveva capito come fare, ma questo dubbio lo rodeva. Solo una persona poteva aiutarlo, solo una persona ci sarebbe riuscita certamente. Non poteva sbagliare, ma quella persona apparteneva al passato, chiamare quella persona significava svegliare il mostro. Se la sentiva? Sarebbe poi riuscito a rimetterlo a tacere un'altra volta.
Indugiava, Marco, non riusciva a scegliere e nell'indugio si riusciva a scegliere e nell'indugio si distruggeva di gin.
Forse prima o poi sarebbe arrivato a una soluzione, ma il gin ne trovò un'altre prima di lui.

mercoledì 5 giugno 2013

Era bello qui


Mi stavo abituando qui, era così giusto, era così bello.
Ci svegliavamo tutte le mattine presto, il sole ci accarezzava e intorno a noi solamente il silenzio.
Mi piaceva qui, in mezzo a questa natura, con la figlia del fattore che veniva a vendere le uova e dalla terrazza sul tetto vedevo le mucche. Mi piaceva andare al ruscello a prendere l'acqua e cogliere i fiori per i nostri vasi.
Nostri non proprio, ma lasciamo perdere.
Mi piaceva stendere la biancheria con l'odore dell'erba tagliata, per sentirmi meno sola. Mi piaceva mettermi il fazzoletto in testa e dar da mangiare alle galline, attendere te con la bicicletta arrugginita tornare a casa.
Nemmeno un anno ma questo era ormai il mio mondo, speravo di rimanere, di restare ancora un po' ancora un po' di più.
E invece no, anche questa volta tu non ti senti più sicuro, di nuovo vuoi andartene, siamo braccati di nuovo, dici. Ma non è vero e lo sai, sono soltanto le tue fobie, non ci prenderanno mai e tu insisti, continui a fuggire. Più dal senso di colpa che da loro, ormai. Ma non ci puoi fare niente, è la tua vita una colpa continua.
Domani ce ne andremo di nuovo, in punta di piedi come siamo arrivati, ce ne andremo lontano per impossessarci di altre due vite, rubare l'identità chissà a chi, e vivere defilati.
Da tutto e da tutti.
Aspettando nuovamente il momento di partire ancora.

lunedì 3 giugno 2013

Donna felice


Non so dirvi cosa fece la differenza, in quel pomeriggio invernale. Fu diverso, semplicemente.
La luce era già andata giù, a metà pomeriggio. Niente di speciale in pieno inverno. Il freddo era palpabile, gelava le mani e il naso.
Poche persone sul marciapiede, tutte ben vestite, poche auto pigre attendevano ai semafori. Sempre rossi.
Io guardavo dalla finestra questa trista città e vedevo tutto medesimo all'immaginario che stampato permaneva nella mia mente. Dieci anni prima ogni aspetto sarebbe risultato identico. Lo ricordavo anche.
Un gatto saltò su di un muretto e se ne andò per la sua strada, passò un Pullman mezzo vuoto e un clacson sunò lontano.
Mi spostai dalla finestra e preparai un tè. Lo facevo tutti i giorni. Poi lo bevvi, feci la doccia e mi vestii con cura. Uscii in strada in mezzo alla gente che non c'era.
Dovevo recarmi al supermercato, non lo feci, dovevo ritirare i panni in lavanderia ma non ci andai, dovevo far visita a una vecchia amica malata, non andai neppure là.
Passeggia semplicemente, pensando a quanto tempo era che non mi sentivo così viva. Così libera.
Da qual giorno sono davvero una donna felice.