Sii forte, ragazzo.
Calligrafia precisa, morbida,
armoniosa. Sembrava più femminile, non scritta da un uomo; eppure
così sicura, così perfetta.
Questo messaggio è stato un dono
prezioso, inaspettato.
Era passato precisamente un anno, dal
giorno in cui persero la vita i miei genitori, alle dieci della sera
il bar già vuoto, eccetto me.
Una sera lugubre, un'aria
spiacevolmente frizzante, rara da noi; la sera adatta per il dolore
di un ragazzo.
Ero, come ho detto, solo. Non posso
biasimare i miei amici, quel giorno si erano fatti vivi tutti,
nessuno escluso; più di metà della popolazione di Laguna era
entrata nel locale, anche solo per un caffè, per una scatola di
caramelle. Eppure era diverso. Nessuno era entrato per caso; tutti
avevano la loro scusa, i miei clienti, tutti quelli che la sera si
fermavano anche solo per un saluto; nessuno aveva scherzato, nessuno
si era trattenuto più del necessario, nessuno, dopo una furtiva
occhiata al mio volto, aveva osato alludere a niente. Sembrava che
tutti si fossero dati appuntamento per starmi vicino, e non me lo
volessero far sapere, oppure non se la sentissero di farlo fino in
fondo.
Laura, invece, non era apparsa. Neppure
una telefonata che, d'altronde, ero stato il primo a non fare. Ma lei
è mia sorella, capivo il suo contegno, fin troppo bene sentivo,
dentro di me, le sue motivazioni.
Forse insieme ci saremmo consolati,
forse non saremmo stati abbastanza forti.
Mentre meditavo, su questo ed altro,
una figura, che non avevo sentito entrare, di fronte a me. Stupore,
imbarazzo, vergogna, timidezza, sì anche timidezza, avvolsero i miei
gesti quel tanto che bastava, a me per recuperare il fiato, a lei per
salutarmi con un sorriso e chiedere, come ti senti?
Nessuno, ancora, era riuscito a
porgermi quella domanda, sgorgata così naturalmente dalle labbra di
Don Giò.
Ci sedemmo insieme e ben presto
l'imbarazzo svanì. Il motivo della mia reazione forse vi sembrerà
puerile; era quasi trascorso un anno, per la precisione 363 giorni,
dal mattino in cui non ebbi il coraggio di recarmi a un funerale
tanto importante per me, e, in quella fredda giornata, né io né mia
sorella, pensammo a far dire una messa in memoria, e, per di più, in
tutto quel lasso di tempo, io evitai, accuratamente, la parrocchia e
il giovane parroco.
Don Giò non dava a intendere di
essersene preso a male; discorremmo fino a tarda notte. Non ricordo
esattamente di cosa, non sembrava un prete, piuttosto un vecchio
amico.
Nel momento di andarsene mi lasciò il
suo saluto sul libro e uscì; il fastidioso vento non era affatto
smesso, anzi sembrava alzarsi sempre di più. L'ultima immagine che
vidi di lui, quella sera, fu la sua corsa in bicicletta verso casa
sua, là alla chiesa. Pedalava come un forsennato, tenendo
delicatamente in mano un lembo della sottana che mai si levava.
Poteva sembrare un'immagine ridicola, ma a lui donava dignità. Andai
a letto molto più sereno.
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