venerdì 28 dicembre 2012

Gli auguri quando nessuno fa più gli auguri

Gli auguri quando nessuno fa più gli auguri

La fuga


Camminavano sul bagnasciuga senza troppa fretta, confondendosi con i turisti, in quel periodo numerosi.
Lei aveva fretta, voleva accelerare il passo, lui la tratteneva, talvolta la guardava con astio.
Possibile che non capisci, dicevano, quegli occhi. Avevano appena deciso che mischiarsi tra la folla era la cosa più naturale, più sicura.
Non daremo nell'occhio, vedrai, aveva assicurato lui. Lei gli aveva creduto; adesso, però, aveva paura. Si sentiva schiacciare, voleva correre via. Ma diede retta e proseguì il copione.
Parlò del tempo, del verso dei gabbiani, del sole che scotta e della crema che era finita. Risultò più facile del previsto. Sembravano davvero una coppietta felice.
Poi fu la volta di lui. Parlò di un ristorante, dove sarebbero andati, parlò di un collega che si era ammalato, parlò di una gita che voleva fare. Anche lui fu bravissimo.
Lei parlò di un costume che aveva visto in una vetrina, della parrucchiera cui voleva andare, di sua sorella che mandava i saluti. Iniziava a sentirsi rilassata, si dimenticò persino che stavano scappando, si divertiva quasi, con l'acqua del mare che le accarezzava le caviglie.
Una sirena sentirono. In lontananza, ma verso di loro sembrava venire.
Lui la prese per mano e la spinse verso l'acqua. Una voglia improvvisa di fare un tuffo, niente di male, niente di strano.
Con calma lentezza si avviarono a largo, un mare gremito gli faceva compagnia. Saremo al sicuro, disse di nuovo lui, lei oramai si fidava ciecamente. Si allontanarono ancora dalla costa pericolosa, solo allora lei si ricordò. Non sapeva nuotare.

giovedì 27 dicembre 2012

Derek è salvo | noelife.it

Derek è salvo | noelife.it

Feng


Dormo, la testa reclinata e le braccia distese, morbidamente appesa in un sonno tranquillo. È un rumore che mi sveglia, qualcosa che forse è lontano, qualcosa che forse è dentro me. È flebile ma mi sveglia, ha il potere del ricordo, che è forte e chiaro, anche quando bisbiglia.
All'inizio mi era sembrata lei, prima di capire che non era possibile. Chilometri da qui, un'altra casa, un altra famiglia, un altro nome.
Dovetti per forza così, eppure ti penso, nei momenti più strani.
Ti chiamai fenice, gatta dalle mille vite. Ti ricordo cucciola, a malapena guardavi stupita tutto quel che ti circondava. Con la linguetta ruvida mi leccavi le dita e premevi il musetto nel palmo della mano.
Mi venivi a svegliare ogni mattina, miagolavi sotto il letto per farmi alzare. Camminavi tra i miei passi e quanto mi odiavi quando, assonnata, ti pestavo la coda.
Nelle notti d'inverno ti accoccolavi sulla schiena, e con il tuo pelo scaldavi anche me. Proprio là, dove sento sempre freddo.
Tornavo a casa la sera tardi, venivi alla porta ad aspettarmi. Ruffiana, lo sapevi che ti portavo la pappa. Se ero triste mi saltavi tra le braccia, ti facevi cullare dai miei pensieri.
Adesso te lo posso anche dire, tutto quel pelo che tanto odiavo e che ovunque andava a finire mi manca, e mi manca un bel po'.

giovedì 20 dicembre 2012

La stupida guerra per perdere diritti!

La stupida guerra per perdere diritti!

Una donna


Un negozio con l'insegna illuminata, la saracinesca è abbassata a metà.
All'interno una donna scopa per terra, sta chiudendo anche oggi, anche oggi spazza i minuti che da casa la dividono.
Con la polvere raccoglie i pensieri, ne fa un monticello, vicino all'ingresso. Pensa alla casa in cui tornerà, pensa alla vita di cui noi tutto ignoriamo.

Vive sola la donna? Dalla casa pulita e ordinata ticchetta un orologio. Nella casa disordinata di chi vive a caso. Nella casa polverosa, gialla di squallore, grigia di tristezza.

Ha un marito la donna? Un uomo che la ama e vive con lei. Un uomo che l'ha abbandonata tanti anni fa. Un uomo che le rimane accanto sebbene non ci sia più.

Ha dei figli la donna? Due ragazzi modello che le han preparato la cena. Un giovane scapestrato che le reca solo pensieri. Una bambina studiosa che l'aspetta alla sua giovane scrivania.

Ha amici la donna? Questa sera uscirà a cena con vecchi compagni. Da molto non riceve una telefonata. Il cane Fido è l'unica amico suo.

La saracinesca adesso è totalmente abbassata, la donna esce e si dirige verso casa. Noi continuiamo a non sapere niente su di lei, se non che ha finito di spazzare e con la polvere ha raccolto i suoi pensieri.

Rischio sordità per le Balenottere | noelife.it

Rischio sordità per le Balenottere | noelife.it

Salvaguardia degli squali | noelife.it

Salvaguardia degli squali | noelife.it

JR ha colpito nel segno. Entra a scuola

JR ha colpito nel segno. Entra a scuola

Il pacco regalo a... Berlusconi

Il pacco regalo a... Berlusconi

Il guidatore nella notte


"Dove andiamo?"
L'uomo guida e non risponde. Scuote la testa appena, come a voler scacciare un pensiero insolente.
"Dove andiamo?"
Di nuovo la voce, e quella nota di preoccupazione che la contraddistingue.
"Andiamo".
La voce sembra essere soddisfatta.
"Torneremo?"
"Torneremo".
"Prima di sera, intendo".
"È già sera".
Le ombre hanno ormai ricoperto tutto, la voce intuisce l'inutilità delle sue domande. Tace. Per un po'. Poi ritorna.
"È lontano?"
"Non lo so".
Fissi gli occhi sulla strada, le luci delle altre macchine sembrano appartenere ad altri mondi. Il traffico è scorrevole, è un piacere scivolare via.
Poi tutto accadde velocemente, i fari che lo precedevano, inchiodarono, li vide illuminarsi, un grido di allarme che non ha voce.
Inchioda, ma è troppo tardi.
Il suo corpo venne estratto dalle macerie. L'uomo, nell'auto, era solo.

mercoledì 19 dicembre 2012

Arte e potere

Arte e potere

Gli italiani sono responsabili con le parole giuste

Gli italiani sono responsabili con le parole giuste

L'aneddoto


Chiacchieravamo del più e del meno, nel traffico scorrevole della sera. Raccontavo a lui un aneddoto lontano, niente di particolare, ma ci faceva ridere. Anche se non ero arrivata alla parte divertente.
"Pioveva quella sera, sai, proprio come oggi, ma non faceva troppo freddo. Come oggi".
Le fitte goccioline cadevano veloci, bagnavano appena, eteree.
Percorrevamo quella via a noi nota, e pensavamo solo al racconto.
Fermi al semaforo, un rumore ci distrasse. Un rumore sordo e una lieve vibrazione.
Cos'è?
Chiesi. Lui si strinse nelle spalle, io scesi a controllare. Fermi al semaforo con la pioggerellina fitta, nella via assai nota.
Arrivai all'altezza del portabagagli e lo vidi. Era un ragazzo alla fermata del tram, prendeva a calci quel che aveva intorno ed urlava, urlava a squarciagola. In quel momento un altro colpo, un altro sordo rumore vicino a noi. Anche il secondo sasso colpì l'auto, rimbalzando poco lontano.
Prima di mettermi a correre per raggiungere lo sportello -sembrava lontano nel terrore- ne vidi molti. Sassi allineati accanto a lui. E ne ebbi paura. Quei due passi infiniti percorsi, incolume, un terzo colpo vibrò tutto intorno.
Di finire l'aneddoto non avevamo più voglia.

lunedì 17 dicembre 2012

Aroma di caffè


Frizzante la mattina, con un'aria da neve che mozza il respiro. Plumbeo il cielo, densa l'atmosfera, carica di una promessa non certo velata.
Il sole che non aspettavo accompagna ora i miei passi lievi, nei grandi viali con morte foglie di vecchi alberi, colori autunnali e Natale alle finestre, il tono sommesso del Natale di periferia. È freddo ma non lo sento, non più, non ancora.
Auto che sgommano al mio fianco, la trasmissione televisiva esce dalla casa di ringhiera, il fischiettare dell'uomo. Non li odo, solo i pensieri nella mia mente. Ma oggi non sono preoccupazioni, sono idee vaghe, volteggiano in equilibrio tra i disegni delle mie sensazioni.
Lo smog fitto, la friggitoria all'angolo, un take away cinese, sono odori che non mi giungono.
È caffè. Caffè, non uno strisciante profumo che scivola via sotto la porta di un bar, ma un aroma forte, intenso, palpabile. Chicchi tostati e come appena macinati sembra che mi scorrano tra le dita, avvolge e rapisce senza che io capisca dove. Ignota la provenienza, mi sposto ed è medesimo. Non accenna a scemare, né a crescere, non demorde, mi segue.
Sprezzantemente fuori luogo, mi chiedo se sia io l'unica a percepirlo e continuo il mio percorso. Foglie gialle, tracce sull'asfalto, scarpe di vernice rovinata, ruvidi cappotti, ambulanti lungo la via, e caffè, murales scoloriti, cartelloni strappati, semafori rossi. E caffè. Clacson innervositi, un ombrello rotto, un passante distratto. E caffè.
Mi insegue fino a casa, non da tregua. Salgo le scale con la lenta consapevolezza dei deja vu, la porta si apre, cigolando silenziosa, tutto appare come l'avevo lasciato, e sul fornello la moka pongo.
Tu caffè, forte e pungente, non capisco come, sei ancora con me.
Fischi moka, mi chiami, arrivo, ma ciò che bevo non sa di nulla. Mi rimane quel buon odore con cui cullare il mio pomeriggio.

Marco Pannella. Memoria e Occupazione

Marco Pannella. Memoria e Occupazione

Rita Levi Montalcini

Rita Levi Montalcini una vita per la scienza

Una sottile differenza


Immerso nei miei pensieri mi accorsi che il treno si era fermato solo quando ripartì. Alzai gli occhi, e, per qualche istante, non notai la differenza. Fissavo la poltrona di fronte a me, vuota, e mi chiedevo cosa non andasse nella mia visuale, giravo gli occhi nello scompartimento, smarrito.
Ero solo, nulla che non andasse, il treno lentamente acquistava velocità, sempre di più il paesaggio scorreva rapido alla mia destra, la luce della mattina coccolava i colori.
Poi lo vidi, che non c'era, cioè, non lo vidi e allora capii.
Il mio compagno di viaggio era sceso, in silenzio mi aveva abbandonato al mio andare, aveva sfiorato la mia vita con le sue esperienze ed era saltato giù.
Un peccato non averlo potuto salutare. E fu allora che ebbi un comportamento alquanto ridicolo; mi alzai e andai a sedermi là, dove prima galleggiava lui, per percepire il calore del suo corpo, per convincermi che non avevo soltanto sognato la sua presenza. Le mie valige, da quella prospettiva, apparivano estranee, enigmatiche, freddi esseri senza storia.
Rialzandomi lo trovai, era il quaderno che custodiva la sua scrittura veloce. Lo soppesai tra le mani, lo osservai meglio...

giovedì 13 dicembre 2012

Attesa


L'uomo, quello anziano, si avvicinò al parapetto. Respirava a pieni polmoni, catturando ogni singolo odore.
Inquieto, si guardava intorno.
La distesa di scogli, che solamente lo separava dalla distesa d'acqua, brillava sotto il sole rosato del tramonto.
L'altro uomo non sembrava essersi accorto della sua presenza; fissava un punto lontano e muoveva appena appena la labbra.
È fresco, oggi.
E l'uomo, quello giovane, si girò verso di lui, lo sguardo rimaneva fisso, come se non avesse inteso.
Si è alzato un bel vento frizzante, tentò di nuovo l'uomo, quello più anziano.
L'altro si strinse nelle spalle, non sembrava propenso alla conversazione.
L'uomo anziano pensò che la scena ricordava qualcosa, anche se non riusciva a capire.
Una foglia autunnale si staccò da un albero lì vicino e, con spaventosa lentezza, raggiunse i piedi dei due uomini. Entrambi non distolsero lo sguardo dal mare. Una barca procedeva lentamente verso il porto, un peschereccio, carico di reti, di gabbiani e di mani rovinate dal sale.
L'uomo anziano accese una sigaretta e, nuovamente, tentò di attirare l'attenzione dell'altro.
Ne vuole?
Ottenne, in cambio, uno sguardo stupito, un lungo sguardo che lo scrutò da capo a piedi, intensamente. Ma non rispose.
Poi, dopo un minuto di silenzio.
Mi dice chi è lei?
Fu la volta dell'uomo anziano a tacere. Aveva occhi gialli, da gatto, macchie sul viso e un vecchio cappello calato sulla nuca.
Un uomo, soltanto un uomo.
Viene spesso qua?
E lei?
Poi le parole divennero superflue, si strinsero per ripararsi dal vento che iniziava a farsi più imponente. Giù, nel mare, schizzi salivano nel rinfrangersi delle onde sulla scogliera.
Ricominciarono ad attendere, cosa e chi, non lo sapremo mai.
Andateli a vedere, sono ancora là, attendono, mentre le loro vite scorrono via, trascinate dal vento.

Gaber - Luporini, esperimenti particolari.

Gaber - Luporini, esperimenti particolari.
Il libro ricordo a dieci anni dalla morte del signor G

mercoledì 12 dicembre 2012

Vacanza finite


Le vacanze appena terminate. Penombra della casa, chiusa tre settimane, odore di loro, di pelle salata e capelli bruciati dal sole. Li aspettava, con le loro valigie piene e il loro sapore di mare.
Lei si lascia cadere sul divano, chiude gli occhi, pace, lui prosegue lungo il corridoio, inquietamente in cerca di qualcosa.
Rumori familiari ma dimenticati, sospesi nel limbo del ritorno alla normalità. Rito di riappropriazione.
Ma chi sono io, lui o lei?
Non ora, ti prego, c'è tempo, adesso facciamo l'amore. È lei ma non lo dice, lo pensa soltanto, una luce nei suoi occhi dipinge i suoi pensieri. È una luce che sente anche lui, dalla camera, è una luce che lo fa tornare indietro a cercarla.
Sei qui. Già.
La corta gonna di lei, il costume di lui, la maglietta che scopre la nuda schiena di lei, e quella di lui che non copre più il giovane corpo abbronzato. Fuori da quelle mura un mare di cemento e di asfalto, ma loro non sono là. Non ancora.
Lui sa cosa la sua donna vuole, lo sa sempre. Lei sa cosa il suo uomo farà, non chiede mai, basta il suo volto a parlare.
Quella vacanza non poteva che finire così, con un ultimo gesto d'amore, sul divano della loro normalità, la sabbia ancora nascosta tra le pieghe dei loro corpi.
Si tuffa in lei, come insieme quella mattina, si erano tuffati dalla scogliera, prima di partire, le emozioni si confondono e si amplificano.
Gli umidi capelli di lei in auto quella mattina, l'umidità del suo desiderio, il sapore di quel bacio in acqua, il sapore del loro piacere, il rumore delle onde e del divano, chiudere gli occhi e farsi portare, sempre.
Adesso la vacanza è davvero finita.

Noi non beliamo col gregge rosa. Intervista ad Adriana Tisselli

Noi non beliamo col gregge rosa. Intervista ad Adriana Tisselli
Fondatrice e presidente del Movimento Femminile Parità Genitoriale

martedì 11 dicembre 2012

La lettera..accadde che...


Il treno si fermò con una brusca frenata e stridio di rotaie. Io e il mio compagno di viaggio alzammo gli occhi contemporaneamente, e questi s'incrociarono.
"Fumi una sigaretta insieme a me."
E prese dalla tasca della sacca da viaggio un pacchetto logoro. Lo seguii sulla banchina.
"Ho smesso anni fa" parlando guardava lontano, oltre la stazione "ma quando sono in viaggio, fumo di nuovo. È un momento a sé, capisce?"
Annuii, ancora ma non parlavo. Non volevo ammetterlo apertamente, ma anche a me quel giovane uomo metteva in soggezione, proprio come faceva Jack.
La banchina era quasi deserta, il treno, giunto in anticipo, non sarebbe partito prima di venti minuti.
"Forse faremo bene a prendere un caffè."
Probabilmente lo disse solamente per rompere il silenzio. Ci avviammo nel piccolo bar della stazione di quell'anonimo e sonnolento paese di provincia. Intorno un'aria di risveglio, sembrava strano a noi, che eravamo in viaggio già da qualche ora.
Un barista dall'aria distratta ci servì due caffè bollenti.
"Va lontano?"
Gli dissi il nome della cittadina, che, non me ne stupii, non conosceva.
"È in Germania, l'ultima fermata del nostro treno."
"È lontano; deve essere un viaggio stancante."
"Ogni viaggio è stancante; più che altro a livello morale e simbolico."
Mi uscì detto. L'altro non diede a vedere di essersi stupito delle mie parole.
"Io mi fermerò molto prima, ma tra poco dovrò cambiare."
Ogni sua parola era cadenzata di una strana serietà.
"Senta, scusi se sembro sfacciato...posso farle leggere una lettera"
Mentre ci avvicinavamo al treno mi spiegò. Se fosse stato un fumatore abitudinario ne avrebbe accesa un'altra, dopo il caffè.
"Circa un mese fa dovetti fare una trasferta di lavoro, un paio di giorni, niente di particolare, ogni tanto mi capita. Durante il viaggio di ritorno ebbi la sfortuna di imbattermi in uno sciopero dei trasporti, rimasi fermo in una piccola stazione, come questa, molte ore."
Non capivo, sinceramente, cosa lo induceva a raccontarmi tutto ciò, ma sono curioso, e il mio mestiere è riferire storie, non dimenticatelo, ogni spunto è gradito, infine, e sopratutto, la sua voce lasciava una scia da inseguire.
"Entrai in un bar e vi rimasi tutto il tempo, cercando di isolarmi dal mondo che mi circondava, avevo documenti di lavoro con me e la giornata scorreva veloce. Poco dopo il mio arrivo, a un tavolo vicino, sedette una donna, dagli occhi scuri, penetranti. Li sentivo nella schiena, puntura di una lama affilata; aveva un libro tra le mani, udivo il frusciare della carta quando girava pagina, e di nuovo, quando interrompeva la lettura la sensazione di essere osservato da quegli occhi belli quanto inquietanti, neri, brillavano, per quel poco che avevo potuto vedere, di viola. Chiamarono il mio treno, mi ero leggermente assopito, di corsa raggiunsi il binario, che la voce metallica pronunciava con insistenza."
Quasi potevo vedere la scena, il giovane aveva un vivo modo di narrare, molto coinvolgente.
"Avevo lasciato nel bar una piccola valigetta, me ne accorsi solo giunto a casa, conteneva solo vecchi appunti di cui potevo fare a meno, non avevo perso niente di importante e non me ne crucciai."
Si dipinse ai miei occhi una ventiquattr'ore in ecopelle marrone, con una semplice chiusura a scatto, qualche graffio di antica data ma nel complesso ben tenuta. Giaceva appoggiata su di un tavolino rotondo, tra macchie di caffè e briciole di brioches.
"Non pensai più alla valigetta, ma quegli occhi tornarono a tormentarmi spesso. Volevo dare un nome a quello sguardo che mi toglieva il sonno, ponendo interrogativi che non udivo."
Potevo benissimo immedesimarmi.
"Sulla valigetta avevo messo una banale targa con nome e indirizzo; adesso sto andando a prenderla, l'ha presa la donna con gli occhi viola."
L'uomo rimase a guardare a terra per qualche tempo.
"Forse sto solo andando a rincorrere quello sguardo. Non so."
Udimmo il fischio della partenza e, salendo sul treno, mi porse un foglio spiegazzato.
"La legga, ma la prego, non dica anche lei che sono matto."

Uccelli riciclatori | noelife.it

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Centro di Primo Soccorso per tartarughe | noelife.it

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Progetto Veneto per la tutela dei cetacei

Andrea Serra e il coraggio della Passione

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Le feste e i suoi dolci

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Le leggende sui dolci di Natale

La decisione


Avevo ventidue anni, e come a tante persone succede in ogni momento, mi capitò un fatto curioso, strano oserei dire, la prima esperienza davvero strana della mia vita. Fu il primo momento in cui intuii di essere in qualche modo diverso, ma durò un attimo.
Fu troppo poco.
Più tardi seppi che era il primo segno. Di un uomo che sa sognare.
Studiavo medicina da tre anni, e continuavo a prendere il mio traghetto ogni mattina e ogni sera per tornare dal mio taciturno padre. Rispetto agli anni passati cambiava solo in fatto che di sabato potevo dormire.
È strano; il vecchio medico sperava con tutto se stesso che io seguissi le sue orme, ma dei miei studi non voleva sapere niente. Mai che mi avesse fatto una domanda al riguardo, se iniziavo a parlarne io mi zittiva. Neppure i voti dei miei esami conosceva, e me ne dispiaccio, erano tutti voti molto belli, sarebbero stati una piccola consolazione.
Ma a me non interessava affatto. Studiavo, mi tenevo al pari con gli esami, collezionavo i miei trenta sul libretto, tutto come se vivessi la vita di un altro. Dovevo ancora convincermi, era con il mio futuro e la mia vita che stavo giocando.
Quell'estate mi ero lasciato solo un esame per Settembre, era un esame semplice e mi sentivo già preparato; credo l'avessi posticipato solo per evitare la traversata sotto il cocente sole di fine Luglio.
Carlo sarebbe venuto a trovarmi solo al termine dell'estate, dopo il suo torneo a Praga, uno davvero importante e famoso. Mi rimaneva molto tempo, aiutare il vecchio Gaspare, quelle lunghe ore al mare schiarivano i miei pensieri.
Gaspare viveva in una villetta vicino all'aranceto, anche se il comune gli dava, oltre allo stipendio, una piccola casetta sulla spiaggia. Casetta è un termine troppo importante, diciamo capanna. Aveva il pavimento di terra battuta, ed era alimentata a gas. Un letto duro e stretto, gli utensili più elementari l'arredavano; il bagno era fuori, dalla doccia scendeva solo acqua fredda. Troppo scomoda per un vecchio con i suoi acciacchi. Da anni la usava solamente per lasciarci le sue cose, neppure per qualche isolato sonnellino, si recava là.
Iniziai a usarla io.
Nei mesi estivi, quasi mi ci trasferivo, tornando a casa raramente, sempre in orario in cui il dottore era in ambulatorio. Non lo vedevo da quasi un mese, un mese di pace; il distacco da lui mi faceva dimenticare, ancora un poco di più, quale fosse, in realtà, la mia vita.
Durante l'estate io era il guardiano della spiaggia; lo studente di medicina lo nascondevo dietro le dune, sperando di non ritrovarlo più. A ogni Settembre tornava sempre fuori, sonnacchioso e spettinato, ma ancora non si era mai perso. Riuscivo a dimenticarlo, lo dimenticavo sul serio, ed era come se fare il guardiano fosse realmente tutta la mia vita.
Tutto ciò sebbene mi portassi sempre dietro il mio libro, era un manuale di gastrologia o qualcosa di simile. Non perché vi studiassi davvero, era più un vezzo e un'abitudine.
Gaspare si fidava di me, trascorreva le estati in casa per riposarsi dal lungo inverno in cui nessuno lo aiutava. Tornava in spiaggia quando riteneva che avessi bisogno di una dormita.
Le mie giornate erano abitudinarie; quella mattina, come sempre, ero seduto sulla riva, alle prime luci. Mi piaceva farmi lambire dalle onde, rosate dall'alba, la carezza materna mancatami nella vita. Karol, stai guardano anche tu questo mare? Sei davvero così bella, come ti dipingono i miei pensieri?
Il libro sulle ginocchia, chiuso ovviamente.
Pace.
Ad un tratto accadde qualcosa.
Ebbi la sensazione di non essere solo, mi guardai intorno ma era deserto, c'ero solo io e quella strana idea di sogno, un vago intorpidimento. Tornò la normalità, con lo stesso cambio repentino con cui mi aveva salutato prima. L'idea del sogno rimase. Vidi la mia vita come dall'esterno e non mi parve la mia.
Un'idea comparve nella mia mente, senza che io l'avessi minimamente evocata. Era già compiuta in se stessa quando la scorsi.
Nei tuoi sogni la tua vita è governata da ciò che ami, perché dunque non seguirli?
Il libro pesava sulla mie ginocchia, percepii lo studente di medicina che mi respirava affianco; gli consegnai il testo e lo congedai per sempre, non poteva esserci posto per lui, nel mio futuro.
Mi sentivo molto meglio, ma l'inquietudine non era andata lontano, assopita dentro me, pronta a svegliarsi al primo passo falso.
Non ero più uno studente di medicina, anche se nulla era cambiato; non avevo confidato a nessuno la mia risoluzione; mio padre, convinto che ben presto l'avrei sostituito; Gaspare si godeva il riposo, sicuro di riprendere il troppo faticoso lavoro in autunno; a Settembre mi aspettava un viaggio in traghetto di cinquanta minuti e un esame; il manuale, oramai parole inutili e frasi vane, continuava a seguirmi dovunque andassi.
Ma tutto era diverso, io ero diverso. Avevo deciso.
Una risoluzione per essere valida deve avvenire nell'anima, se il pensiero è saldo cosa importa come a quando metterlo in pratica? Ne valeva forse più una presa con il cuore incerto, e resa tempestivamente effettiva per la paura di tornare sui propri passi? Voi che dite?

lunedì 10 dicembre 2012

Olympe De Gourges

Olympe De Gourges
Per i diritti della donna e della cittadina. Chi era davvero lei?

Una visita inaspettata


Sii forte, ragazzo.
Calligrafia precisa, morbida, armoniosa. Sembrava più femminile, non scritta da un uomo; eppure così sicura, così perfetta.
Questo messaggio è stato un dono prezioso, inaspettato.
Era passato precisamente un anno, dal giorno in cui persero la vita i miei genitori, alle dieci della sera il bar già vuoto, eccetto me.
Una sera lugubre, un'aria spiacevolmente frizzante, rara da noi; la sera adatta per il dolore di un ragazzo.
Ero, come ho detto, solo. Non posso biasimare i miei amici, quel giorno si erano fatti vivi tutti, nessuno escluso; più di metà della popolazione di Laguna era entrata nel locale, anche solo per un caffè, per una scatola di caramelle. Eppure era diverso. Nessuno era entrato per caso; tutti avevano la loro scusa, i miei clienti, tutti quelli che la sera si fermavano anche solo per un saluto; nessuno aveva scherzato, nessuno si era trattenuto più del necessario, nessuno, dopo una furtiva occhiata al mio volto, aveva osato alludere a niente. Sembrava che tutti si fossero dati appuntamento per starmi vicino, e non me lo volessero far sapere, oppure non se la sentissero di farlo fino in fondo.
Laura, invece, non era apparsa. Neppure una telefonata che, d'altronde, ero stato il primo a non fare. Ma lei è mia sorella, capivo il suo contegno, fin troppo bene sentivo, dentro di me, le sue motivazioni.
Forse insieme ci saremmo consolati, forse non saremmo stati abbastanza forti.
Mentre meditavo, su questo ed altro, una figura, che non avevo sentito entrare, di fronte a me. Stupore, imbarazzo, vergogna, timidezza, sì anche timidezza, avvolsero i miei gesti quel tanto che bastava, a me per recuperare il fiato, a lei per salutarmi con un sorriso e chiedere, come ti senti?
Nessuno, ancora, era riuscito a porgermi quella domanda, sgorgata così naturalmente dalle labbra di Don Giò.
Ci sedemmo insieme e ben presto l'imbarazzo svanì. Il motivo della mia reazione forse vi sembrerà puerile; era quasi trascorso un anno, per la precisione 363 giorni, dal mattino in cui non ebbi il coraggio di recarmi a un funerale tanto importante per me, e, in quella fredda giornata, né io né mia sorella, pensammo a far dire una messa in memoria, e, per di più, in tutto quel lasso di tempo, io evitai, accuratamente, la parrocchia e il giovane parroco.
Don Giò non dava a intendere di essersene preso a male; discorremmo fino a tarda notte. Non ricordo esattamente di cosa, non sembrava un prete, piuttosto un vecchio amico.
Nel momento di andarsene mi lasciò il suo saluto sul libro e uscì; il fastidioso vento non era affatto smesso, anzi sembrava alzarsi sempre di più. L'ultima immagine che vidi di lui, quella sera, fu la sua corsa in bicicletta verso casa sua, là alla chiesa. Pedalava come un forsennato, tenendo delicatamente in mano un lembo della sottana che mai si levava. Poteva sembrare un'immagine ridicola, ma a lui donava dignità. Andai a letto molto più sereno.

venerdì 7 dicembre 2012

Rinnovamenti culinari

Rinnovamenti culinari
Insetti in cucina? Potrebbe essere il futuro

L'arte per la ricerca. Seletti contro la sclerosi

L'arte per la ricerca. Seletti contro la sclerosi
Idee regalo per aiutare la ricerca medica

Un giovane


Mi feci aiutare da mio fratello con i bagagli, e il viaggio ebbe inizio.
Alla partenza il treno quasi deserto, sulla banchina poche mani, saluti muti. Guardavo le spalle di mio fratello che si allontanavano, e tutto era come irreale.
Tra i bagagli il mio lavoro, che poteva aspettare. La mia attenzione, fuggente, cercava un oggetto su cui trovar quiete. Vanamente. L'inquietudine celata, sopita, domata iniziava di nuovo a farsi sentire, non potevo negare a me stesso il molteplice motivo di quel viaggio.
Nello scompartimento non ero solo, un giovane uomo insieme a me. Salendo sulla carrozza era già lì. Aveva alzato gli occhi un attimo, veloce gesto di cortesia, aveva abbozzato un cenno di saluto ed era tornato alle sue occupazioni. Lo spiavo dal riverbero del vetro; la sua immagine tendeva a catturarmi.
Sedeva comodo, leggermente storto, eppure pareva che non sedesse affatto, ma che fosse la poltrona a sorreggere lui, una sorta di galleggiamento. Le gambe, abbandonate inerti, dondolavano appena. Il giovane uomo stava scrivendo, appoggiandosi sul braccio destro per avere un sostegno. Era mancino. Usava una penna in plastica trasparente, rossa, una comunissima penna pubblicitaria con la bianca scritta TANTRA, un piccolo insignificante particolare che così tanto contrastava con l'immagine globale. Pesanti occhiaie, barba di alcuni giorni, lunghi boccoli neri che cadevano ribelli sulla fronte. Eppure la sua persona appariva oltremodo curata e ordinata. Affidabile. Scuri, il viso e le mani, una carnagione propria di chi passa molto tempo all'aria aperta, una strana voglia biancastra alla base del collo.
Scriveva velocemente, e con gli occhi attenti seguiva la penna muoversi veloce. Occhi neri, occhi che brillavano, occhi che scintillavano, occhi vivi. I suoi occhi erano il suo biglietto da visita migliore.
Quel giovane mi rimaneva simpatico e proprio per questo non mi andava di interromperlo; lo lasciavo scrivere con quel fare veloce, e mi godevo la soddisfazione sulla sua pelle. Perché ne traeva soddisfazione, questo era evidente. Già, dentro me, s'insinuava la curiosità.
Cosa? A chi? Perché?
Il giovane non faceva minimamente caso a me, ogni tanto s'interrompeva, alzava gli occhi e sorrideva; ma io, vi assicuro, non c'entravo niente. Era tutta una storia tra lui e le sue parole.
Mi tornò in mente il mio, di lavoro. E il motivo del mio viaggio. Quello ufficiale; poi c'era l'altro, quello importante, quello ufficioso, quello brutto, quello che sapevo solo io. E ritenni opportuno mettermi anch'io a scrivere qualche appunto. Il giorno dopo, in un ristorante del centro per iniziare, nel suo ufficio successivamente, mi aspettava il mio editore. Avrebbe atteso me e le mie tre ventiquattrore; avevo ancora un po' di tempo per salvare la mia situazione lavorativa.
La prima è una valigetta marrone consunta, i lacci tendono a cedere e le cerniere s'inceppano, lisa dal troppo prolungato uso, mi segue dalla pubblicazione del mio primo romanzo. Mi portò fortuna e allora io la porto con me. Quel giorno conteneva una copia dell'ultima mia opera in stampa, che sarebbe uscita a breve nelle librerie tedesche, e un numero pressoché infinito di documenti a essa inerenti. Io e Oleg, il non solo editore, dovevamo solo perfezionare le ultime linee di marketing. Poi la seconda valigetta, nera, seria, lucida e luccicante, regalo di Natale, dell'ultimo Natale ad essere specifici, della mia fidanzata. Questa conteneva il romanzo che avevo appena terminato; Oleg aveva letto qualche anteprima e ne era rimasto letteralmente orripilato, come sempre. Dal giorno dopo avremo iniziato il braccio di ferro sulle modifiche da apportare. Se proprio devo essere sincero, dato il mio umore dell'epoca, sarebbe stata la prima volta che non mi sarei accanito su ogni virgola, per portare avanti le mie idee. Infine, la terza valigetta acquistata per l'occorrenza; in tutta fretta il pomeriggio precedente, nella merceria cinese all'angolo. Ma era pressoché ancora vuota.
Iniziare un nuovo romanzo, per chi non lo sappia, non è impresa da poco; spesso accade che me ne vado in giro per mesi a scrivere e scrivere, bozzette e spunti, iniziando decine di storie diverse, senza che nessuna sia degna di questo nome. Poi arriva l'idea, straccio tutto il resto e parto come un treno. Da molti mesi attendevo quell'idea e la terza valigetta del mio viaggio conteneva solo sputi di letteratura che il mio editore voleva ugualmente visionare, e io avevo ugualmente la speranza di scrivere qualche riga decente nelle ultime ore rimaste.
Il mio silenzioso compagno aveva appena vinto la parte di un protagonista. Di quale storia, dovevo ancora inventarlo; il suo personaggio, però, mi piaceva.
Uomo, circa trent'anni, viso che oscilla tra il particolare e il bello, buona cultura, leggermente eclettica, autodidatta(?), animo inquieto e solitario ma generoso. Bisogno di libertà. Viaggiatore. Intraprendente e curioso. Viaggiatore di nuovo, molto viaggiatore. Talvolta tenebroso.
Lo chiamai Jack, e iniziai a scrivere.

giovedì 6 dicembre 2012

AnamorfismoDiRelero

AnamorfismoDiRelero
Relero, un artista del nostro tempo

Un incontro


Caro Bonsai,
devo narrarti un'estate quanto meno singolare.
Triste? Rassegnata? Lenta letizia?
Non lo so, la mia vita è un puzzle dove finalmente si scorge l'immagine principale.
Mi aspettavo mesi terribili, mi aspettavo il ricordo dei miei cari genitori pugnalarmi in ogni mio gesto, mi aspettavo di non bere più caffè alla mattina, adesso che non è più mia madre con le sue piccole mani forti a stringere la moka per il dolce risveglio della famiglia.
Eppure a fine inverno ho potato l'altea, così come mio padre mi aveva spiegato. Le mie mani si muovevano guidate dalla sua voce, la sua voce di quando stava bene, non la voce rotta dalla malattia che ho sentito l'ultima volta. A luglio è fiorita per lui, per l'amore di mia madre, per la mia vita che deve, nonostante tutto, andare avanti. Non credevo di riuscire, anche quest'estate, di allevarla con amore, senza sentire la costante e quieta presenza materna, nell'orto alle mie spalle. Ma lei è cresciuta, fiera, dichiarazione di eterna speranza.
Anche la mia piccola serra sta crescendo, e un giorno diventerà una grande serra rigogliosa, di una bellezza senza pari. Io vi entro dentro e sono nel mio mondo, sono a casa, sono circondata dalle persone che amo di più. La serra è il mio passato, è la mia esistenza presente, è il grido di vita verso il futuro.
A Laguna tutti sono molto gentili con me, il loro cambiamento di atteggiamento mi ha stupito. Fino a un anno fa ero la figlia di Mauro, l'amabile giardiniere, adesso sono la donna dei fiori, ho anch'io un'identità propria. Hanno capito la mia scelta e, credo, tacitamente approvata; hanno lenito il mio dolore con il silenzio e il rispetto.
Quando qualche signora, scusandosi impacciata per il disturbo, viene a chiedermi consigli sul suo giardino, o quando qualche innamorato, muovendosi sula punta dei piedi, entra da me per comprare un regalo alla sua dama, capisco la stima che mi sono guadagnata. Mi sento Laguna fino al midollo, vivendo quasi fuori dal loro mondo.
La serra di Sonia, indicando la mia casa, lo dicono sottovoce. Sonia, la ragazza delle piante. Questo sono e non potrebbe essere altrimenti.
Talvolta mi capita di pensare all'esperienza di un anno fa, alle parole rivelatrici di mio padre, alla lettera di confessione di mia madre, ma sono solo attimi. Sono gli attimi in cui ho più chiaro, nella pelle, il motivo per cui sono diversa. Immagino mia nonna, chissà se anche lei provava quel che sento io. Ho partecipato a consiglio tre volte, adesso so che non devo averne paura, non c'è niente di preoccupante.
Quando, la sera, finisco con le mie piante, spesso è così tardi che non ho voglia neppure di cenare, rimanere in casa, col cielo buono e le stelle amiche è uno spreco per la natura; spesso vado a respirare la solitudine del mare.
È in queste sere che ho fatto amicizia con Marino, un uomo solo quanto me, un uomo che come me non è mai solo perché ha una passione che dimora dentro; Marino vive di mare, di pesca e di sapore salmastro sulla pelle. È giovane, ma sembra già vecchio; sembra senza età.
Mi ha fatto subito una buona impressione perché assomiglia, fisicamente, molto a mio padre, lo stesso piccolo corpo coriaceo, le mani dal lavoro indurite, ma, appena ha aperto bocca, ho capito che tra lui e il buon Marino c'è in comune solo la bontà. Parole lente, avvolgenti, cullano come la litania delle onde, la litania della sua vita. Le parole di mio padre erano fresche, vivaci, premevano per uscire, erano le parole dei virgulti di primavera.
Marino trascorre le sue serate seduto a riva, ripensando a certe leggende passate, di cui è gran conoscitore. Non sapevo, ma già, io del paese non so nulla, che ci fossero ancora uomini che pescano sulla loro piccola barchetta a remi. Lui, Noce, non l'abbandonerà fino a che non colerà a picco, anche se dovesse rimanere l'unico uomo non imbarcato sui pescherecci. Nella notte ne custodisce il sonno, una mamma con il bambino.
Noce?
"Mio padre la chiamava così, molti anni da farmi dimenticare quanti, per farmi ridere. Diceva perché era che andava veloce; è sopra lei che mi ha insegnato a pescare; è sopra lei che ho capito quale sarebbe stato l'unico senso della mia vita."
Non c'è amarezza nelle sue parole, nè gioia, nè delusione nè felicità, solo una placida passione rassicurante.
Quante sere abbiamo passato insieme! Due atomi a condividere una solitudine di pace. Poche parole coprivano lo sciabordio, costante sottofondo dei nostri delicati convegni...

mercoledì 5 dicembre 2012

Caleidoscopi&Fotografie

Caleidoscopi&Fotografie
Single saudite, uno sguardo diverso

War Dolphin | noelife.it

War Dolphin | noelife.it
I Delfini Americani finalmente a riposo

Affari di cuore contro i Maya

Affari di cuore contro i Maya
Il primo trapianto di cuore

Un sogno


Quel sogno gli aveva lasciato un senso di vuoto; era stata lei la protagonista della sua notte, l'alba l'aveva trovato distrutto, nere occhiaie sul volto dell'uomo triste, e una rabbia che non riusciva a sfogare.
Non era l'idea di lei a far male, ma tutto ciò che implicava l'idea di lei.
Il giovane uomo era un matematico, aveva i pensieri suddivisi in segni e cifre, solo il pensiero di lei non era schematizzabile, una vertigine interiore lo assaliva.
Lei non era particolarmente bella, lei non era particolarmente simpatica, il carattere di lei non era particolarmente amabile; ma lei era lei. Era unica e lo era solo per lui. Questo il punto, come lui lo era solo per lei. E questo l'altro punto, l'equazione era stata facile.
Lui amava lei, un bel più a grande lettere, lei amava lui, un uguale ancora a grandi lettere, loro erano felici e avrebbero trascorso tutta la vita insieme. Il foglio lindo, l'idea lucida, lineare. Non ne avevano mai parlato ma era così, lo sapevano entrambi, non poteva essere diversamente. Sarebbero andati via lontano, si sarebbero sposati, avrebbero avuto una casa, dei bambini, tanti bambini, e sarebbero invecchiati insieme. Felici.
A quell'epoca erano ancora molto giovani, si godevano il loro fresco amore, poi in tal modo sarebbe stato il loro futuro. Gli anni passarono e i progetti si fecero più vicini alla realizzazione, poi quella strana questione, dura come il diamante e fragile come la grafite, che prende il nome di amore, svanì.
Svanì prima in lei, e lui sentì svanire ogni sua certezza; non sto qui a raccontarvi la sua disperazione, sappiate che fu grande, sarebbe penoso, per me, per voi e per lui se ci sentisse, e anche per lei che pure soffriva enormemente; questo vi basti. Svanì anche la disperazione, lasciando il posto a qualcosa di ancora più tragico, il nulla, il vuoto.
Cerchiamolo di capire, quest'uomo triste.
L'uomo, prima di essere triste, era un uomo che aveva conosciuto l'amore, uno dei pochi fortunati che era riuscito a conoscerlo davvero, era un uomo che aveva saputo amare, come pochi riescono realmente a questo mondo.
Ogni cosa di colpo si frantumò e l'uomo smise di credere nell'amore, smise di credere in ogni cosa, essendo l'amore l'unica sua certezza.
L'uomo triste continuava a desiderare una casa, una moglie, dei bambini, tanti bambini, ma la voce dentro sè, quella che zitta non sa stare, l'aveva convinto che mai più era possibile per lui la magia, mai avrebbe aperto il cuore a una donna. Quel cuore che aveva ben chiuso in uno scrigno, al sicuro mentre un serpente rosicchiava lentamente l'animo.

martedì 4 dicembre 2012

Didone

Didone
La donna innamorata

Eroi... antipatici - Top 5

Eroi... antipatici - Top 5
I protagonisti più antipatici di tutta la letteratura

Giovanni


La stessa storia, identica a ieri, medesima a una settimana fa, con la vecchiaia, le mie sere sono diventate tutte uguali, prima non mi succedeva così.
Termino le mie silenziose preghiere, in ginocchio sul duro pavimento, a Dio affidando me in anima e corpo. Una volta steso sul mio vecchio letto, il corpo si ribella, il sonno sfugge, l'insonnia mi assale. Non c'è antidoto.
Le mie labbra ricominciano a muoversi, il silenzio delle preghiere cancellato dal tono della mia voce, ancora calda e profonda, nonostante i settant'anni alle porte. Non parlo più a Dio, parlo a me stesso, mi racconto la mia vita, a me medesimo quasi fossi un estraneo, ripercorro lunghi anni, scivolati via lievi. È l'unico modo che funziona, per addormentarmi, ho provato tutto, solo questo funziona.
Da giovane il mio sonno era profondo e caldo, adesso, un punto lontano cui giungo solo nel cuore della notte o alle prime ore dell'alba, quando va bene.
Altrimenti rimango sdraiato, fino al suono della sveglia, a ripercorrere le tappe che conosco benissimo, notte dopo notte, io, le macchie di umidità sul soffitto, i suoni che fluiscono dalle mie labbra.
Non dovrei lamentarmene, Dio mi ha concesso la Grazia di giungere alla vecchiaia in salute, devo accettare la mia insonnia come uno dei suoi doni; eppure, ogni notte, è inevitabile ricordare, da giovane era tutto diverso.
I miei racconti partono proprio da là, ogni sera; talvolta riesco ad arrivare fino ad oggi, talvolta ho la fortuna di assopirmi prima. Stasera spero davvero di riuscire a dormire verso i quarant'anni, cinquanta al massimo; domani, un incontro importante attende.
Negli anni, fisicamente, sono cambiato poco; i capelli brizzolati mi accompagnano da sempre, a quanto ricordi. Gli occhi chiari non hanno perso lucentezza; solo il mio corpo, con il tempo, si è rimpicciolito.
Dicevano, da ragazzo avevo il fisico più prestante di Laguna; in realtà mai ci ho creduto, fino in fondo. Però tutti i torti non li avevano. Adesso continuo a teneremi in forma, ma, sapete, l'età, quella che è. Girando per Laguna, in sella all'inseparabile Scheggia, non pedalo più così energico.
Don Giovanni, il playboy mancato, dicevano di me gli amici, sfruttando il mio nome, il successo con le donne e il mio totale disinteressamento. Ancora loro non sapevano, ancora non sapeva nessuno, solo a Dio e al mio confessore avevo svelato i miei progetti.
Me ne andai da Laguna, per lunghi anni, quando tornai era l'80, Don Giovanni lo ero sul serio, con tanto di tonaca nera. Mi affrettai, comunque, a precisare che preferivo essere chiamato Don Giò, ragioni più che evidenti.
Quando il vecchio parroco morì, rimasi solo io, a Laguna, l'unico prete dell'unica chiesa e vi sono rimasto per quaranta stagioni, di pesca e raccolto, ringraziando Dio ogni mattina, per questo mio ufficio. Essere parroco a Laguna è un'esperienza particolare. In ogni senso.
La mia Chiesa, dedicata alla Madonna, è affacciata sul mare, già un privilegio grandissimo....


Ben presto capii, che, se c'era qualcosa da poter fare, per servire veramente Dio, era mescolarmi a loro, vivere le loro vite, diventare amico, confidente e guida, prendere familiarità con le loro case, fargli sentire la mia vicinanza, acquisire la loro fiducia, portare il Verbo nel loro semplice mondo, con il loro semplice modo.
Devo ammettere, il rapporto con i miei fedeli non me lo sarei mai immaginato così splendido. In sella alla mia Scheggia, la tonaca in mano, altrimenti mi si impiglia, percorro il paese e faccio visita alle mie pecorelle.
Gli uomini si fidano di me, mi vedono uno di loro, che può realmente migliorare le loro vite nella pratica, con i giusti consigli del Signore.
Le donne si fidano di me, dicono di leggere la bontà, nei miei occhi trasparenti.
Cerco di rimanere giovanile, per permettere anche ai ragazzi di fidarsi maggiormente di me.
Anche i bambini piccoli si ricordano di me, per come vado in bicicletta, una mano sul manubrio e l'altra alla sottana.
Potrei essere felice del mio operato, ma Dio ci insegna, le nostre aioni non sono mai abbastanza, infinitamente meglio avrei potuto servirlo. E allora? E allora ogni notte mi ritrovo qui, a narrare la mia esistenza a mezza voce, e interrogarmi sulle mie azioni, ogni notte devo superare un esame con me stesso, si ripeterà sino a che avrò voce e lucidità. Poi verrò a quello finale, con il Signore.
Una cosa però, la devo confessare, durante questi miei esami ho un vezzo. Rivivo con particolare emozione le cerimonie, da me celebrate, che mi hanno più colpito. Tra battesimi, matrimoni e funerali, ripercorro anche la storia dei Laguni insieme alla mia; i pensieri vanno alle loro anime.
Tra qualche mese si aggiungerà un matrimonio alla mia lista, sposerò due cari ragazzi, li ho visti crescere, adesso due giovani fantastici, cui dedico molte mie preghiere.

domenica 2 dicembre 2012

IL BAMBINO


Il bambino era un bravo bambino, e questo lo vedevi da lontano, per il resto era un bambino come tanti.
Camminava per strada, nell'ombra della mattina, tra poche settimane sarebbe iniziata la scuola.
Il bambino aveva una camminata strana, non da bambino, una camminata seria. Non ciondolava la testa, non dondolava le braccia, non trascinava i piedi. Era un bambino che diceva buongiorno alle signore alla finestra e aiutava gli anziani ad attraversare la strada, era un bambino che non conosceva parolacce e raccontava sempre la verità.
Era un bambino che cresceva solo, in una casa con genitori assenti, era un bambino timido che solo si sentiva perché di amici non ne aveva molti. Questo invece lo vedevi da vicino, se andavi lì e gli scrutavi il volto; il bambino allora ti avrebbe chiesto, scusi signore, ha bisogno, e lo avrebbe fatto con un sorriso, un sorriso triste, non un sorriso da bambino, un sorriso di convenienza, come aveva imparato a fare dagli amici dei genitori. Anch'essi tutti molto seri.
Il bambino era anche un bel bambino, non molto alto ma di greche proporzioni, cenere i capelli, sempre distesi i lineamenti delicati, da bambina. Gli occhi azzurri, sempre vigili, si guardava intorno in cerca di immagini belle. Al bambino piaceva osservare, ed era un bambino dolce, con poco si commuoveva. Appariva un bel sorriso, se il suo sguardo incrociava un bel fiore, una farfalla, un gatto sulla strada. Il bambino annaffiava il prato del suo giardino solo per veder comparire, ai suoi piedi, un piccolo e fugace arcobaleno.
Questa volta fu una bambina a illuminargli gli occhi, una bambina un poco più piccola di lui, su un prato rincorreva una farfalla. Era bella la bambina, perché era intenta, concentrata, totalmente dedita al suo compito. Ma il bambino era educato, sapeva di non dover fissare, e proseguì per la sua strada.
Entrato nel supermercato estrasse dalla tasca un biglietto sgualcito, poche richieste nella tremolante calligrafia. Impiegò poco tempo, dicendo scusi quando doveva passare, per favore quando non arrivava agli scaffali alti, prego quando cedette il posto nella fila a una donna incinta, arrivederci alla cassiera, mentre stava andando via.
Sulla strada del ritorno la bambina con le trecce rosse era ancora là, la farfalla anche. Lei le arrivava vicino ma non la toccava, la osservava intenta, posata sopra un fiore, la farfalla riprendeva il volo e la bambina dietro. Erano belle quelle due, era bella la farfalla dai tanti colori, era bella la bambina dai passi leggeri e spensierati.
Proseguiva per la sua strada, il bambino, e, come ogni mattina di tale estate, portò la spesa fino alla porta dell'anziano vicino. Gli piaceva quell'uomo, era cortese, gentile, lento e pacato. Anche a quell'uomo piaceva il bambino, per gli stessi motivi.
Un biscotto al cioccolato lo aspettava come premio, la lista per l'indomani, poi, si salutarono.

I luoghi dei libri

I luoghi dei libri
Travata negli USA la biblioteca di Harry Potter