mercoledì 14 novembre 2012

La birreria


In Germania, nostra madre aveva venduto ogni cosa, i nostri pochi parenti erano ormai morti, e le amicizia perse di vista. Era la prima volta che mi capitava di nuovo, dover rimanere lassù per tutto quel tempo, le riprese sarebbero durate almeno un anno, fui costretto a trovarmi un appartamento da affittare.
Vi dirò, non andò così bene.
Nello stesso concetto di prendere un appartamento in affitto nella mia terra d'origine, abbandonata nell'infanzia, qualcosa grugniva, dentro me, cosa non riesco a spiegarvelo. Già non avevo accettato il lavoro di buon grado, io sono uno scrittore, capite, parole, carta e inchiostro, non attori scene e telecamere; Oleg aveva dovuto usare tutta la sua perspicacia e tutto il suo buon senso per convincermi.
L'idea non mi piaceva, ma mi sarei rassegnato; un presagio infausto iniziava a strisciare lento.
Oleg mi consigliò un residence vicino agli studi, una nuova costruzione, moderna e funzionale. Questa volta mi impuntai, facendo di testa mia. In un quartiere distante, in periferia, c'era un parco, bello lo ricordavo, con un simpatico laghetto; mio zio Felip vi portava sempre me e mio fratello, la domenica mattina. Ho vaghi ricordi di anatre, o forse papere, o forse è solo la mia immaginazione e qualche film dimenticato. Volevo abitare là, vivano a quel parco della mia infanzia, insieme ai ricordi di mio fratello e di mio zio, in quel vecchio quartiere in rovina. Trovare qualcosa fu una vera impresa, fui costretto ad accontentarmi di due stanzette poco illuminate, che affacciavano direttamente sulla strada. Quella tana aveva tutta l'idea di essere nata come garage e poi ristrutturata in un secondo momento, puzzava di chiuso e di muffa, un odore assordante ad ogni ora.
Ma era vicino al parco.
La sera rincasavo tardi e spesso mi fermavo su una panchina, tra quelle davanti al laghetto, a riguardare gli appunti della giornata, a leggere, a scrivere, a pensare, a rilassarmi, a sentirmi a casa, vicino al mio natio cordone. Davanti a quel lago scrissi la mia prima poesia, e, da quella sera, talvolta ne compongo, inedite, quelle sono solo per me. Più che poesie, pensieri volanti.
E torno, nuovamente a sera.
Mi spoglio dei pensieri,
che con me hanno vagato,
nudo rimango ad ammirare
la semplicità di un ricordo vago,
sponde morte di un lago di città.
Alcune sere non tornavo alla tana se non a notte inoltrata. Prima, non vi riuscivo. Erano quei giorni in cui l'inquietudine saliva fitta, come nebbia nel mio cuore; erano le sere in cui girovagavo a lungo senza meta, nella buia città quasi deserta. Agli angoli delle strade, agli incroci, ai semafori... chiedevo indicazioni a solitari passanti, per il gusto di sentire una voce diversa dalla mia, che urlava nella testa pensante. Entravo in qualche squallida birreria lontano da casa, lì rimanevo fino a che non m'acquietavo.
Era una di quelle sere.
Oleg, alcuni chilometri da me, sedeva in un lussuoso ristorante, discutendo le sorti del nostro lavoro. Avevamo già iniziato le riprese ma, come spesso e purtroppo accade, ancora erano troppe le incognite. La bella quanto dura direttrice della casa di produzione concedeva la sua stessa persona, per le fondamentali decisioni. Io non ero stato invitato, e se da un lato mi bruciava questo declassamento, dall'altro ero ben felice di aver evitato quella cena faticosa.
Lo avrete capito, era un periodo in cui mi limitavo a scivolar via tra i vari avvenimenti della mia vita, aspettando di tornare alla vecchia cara routine.
Pioveva fitto e regolare, una pioggia grigia e insistente, ricordava l'autunno alle porte. Avevo camminato a lungo, ero stanco e bagnato, finito in una zona che non riuscivo a riconoscere, forse appena fuori città. In una strada male illuminata, un insegna di legno, con lettere sbeccate. Recava la semplice parola BIER, e una fioca luce proveniva dall'interno. Scesi i pochi gradini ed entrai in un classico locale bavarese, vuoto eccetto per la giovane, che di bavarese non aveva nulla, dietro al massiccio bancone. Era intenta a sistemare qualcosa alle sue spalle, quindi non mi vide arrivare, nè mi sentì, forse troppo concentrata per farlo. Si girò di colpo, arrossendo, come se fosse stata colta in atti disdicevoli, tentò malamente un sorriso di accoglienza. Era una bella ragazza, dagli occhi dolci, seppur allora l'imbarazzo le confondeva i lineamenti.
Ordinai qualcosa per rifocillarmi, sedendomi ad aspettare.
Iniziai a leggere il libro che avevo con me, che io scriva in tedesco non presuppone che io legga nella stessa lingua; l'italiano, stampato su un foglio di ruvida carta, è molto più appassionante.
La ragazza arrivò con la mia birra, i miei wustel, e i miei crauti. Era buffa, nel suo costume, produceva uno strano contrasto agli occhi. Vidi che sbirciava tra le righe. Non disse niente ma, prima di tornare dietro al suo massiccio bancone, dette l'ultima occhiata al libro, evidentemente incuriosita.
Continuavo a essere l'unico avventore, ogni pochi minuti controllando il cellulare, cercando un cenno da Oleg, che non arrivava. Volevo, dovevo, sapere come era andata con la bella e dura Asli. Vedevo il mio corpo dall'esterno, cambiare posizione ogni pochi minuti, la mia inquietudine trasmettersi intorno, sentivo gli occhi impauriti guardarmi con interesse. Lentamente, la birreria si riempì, mi dimenticai di Oleg, di Asli e di lei senza nome, fui catturato dalla lettura.
Posso dire, letteralmente, senza sbagliare, che il sonno mi svegliò dal mio torpore; mi riscossi e decisi di tornare alla mia tana. Alzandomi e dirigendomi verso il bancone non trovai più la giovane dai lineamenti delicati ma un ragazzone rubizzo, con la stazza da rugbysta. Chiedendo indicazioni per tornare al parco con il laghetto, mi sorpresi che fosse così vicino.
Per alcuni giorni non pensai più alla vecchia birreria. Nè alla giovane.

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