venerdì 30 novembre 2012

Rischi tossici per i calendari di Natale

Rischi tossici per i calendari di Natale
Ritirati dal mercato alcuni calendari di Natale

Monti & Grillo.Solo Parole

Monti & Grillo.Solo Parole
Le parole più cercate dagli italiani nel 2012

Femmine&Femminismo&Volti

Femmine&Femminismo&Volti
Femministe: chi erano e chi sono?

Conclusioni altrui

Conclusioni altrui
Libri terminati postumi da altri autori: giusto o no?

Il trasloco di Serena


Nonostante la lunga passeggiata, è ancora mattina presto. Oggi sono uscita di buon'ora, per parlare con Don Giò, mi rimane difficile pensare a lui come al parroco, è più che altro il dispensatore di boni consigli. Alle porte del mio matrimonio, un dubbio mi ha preso, e chi, meglio di lui, poteva aiutarmi?
Essendo morto mio padre Marino, cinque anni fa, dovevo capire chi mi avrebbe accompagnato all'altare. No, capire non è giusto, decidere suona di menzogna. Avevo già deciso la persona, nel momento in cui ho detto il mio Sì di fronte a quell'anello, il solitario della mia promessa; ma non ho mai saputo se era la scelta giusta, una scelta accettabile. La situazione è molto delicata, volevo avere la sicurezza di non fare un gesto biasimabile.
Don Giò, con la sua calma rassicurante, mi ha fatto capire che non sbagliavo, se questo è quello che suggerisce il mio cuore. Oggi pomeriggio andrò a chiederglielo, sperando di non mettrelo in una situazione imbarazzante, mi dispiacerebbe proprio; adesso non posso, ho da fare.
Come mi aspettavo, mia madre è nella serra, posso salire in camera mia senza essere vista. Se non mi sente rientrare, rimarrà là dentro fino al tardo pomeriggio, saltando anche il pranzo, comparirà solo per un caffè e sparirà di nuovo tra le sue piante, la rivedrò quando l'aria è già buia e frizzante. Non bisogna essere maghi per prevederlo, quando lavora nella serra, mia madre entra in un mondo tutto suo, incapace di uscire dalla sua trance.
Salgo le scale che conducono alla zona notte e, come d'abitudine, rallento il passo per godermi lo scricchiolio del legno, sempre uguale da quando sono nata, ventiquattro anni cullati da questo rumore. Adoro questa vecchia casa in legno, costruita dal nonno Mauro, sarà difficile lasciarla.
Entro nella mia cameretta e il disordine mi assale, mi prende da davanti, da dietro, mi circonda. Oggi comincio, basta rimandare. Tutti gli scatoloni vuoti sparsi in giro dichiarano, a lettere ben grandi, il mio scopo odierno.
Quante cose! Per fortuna a casa nuova ho molto spazio, mi seccherebbe lasciarle qui, come un tenero cucciolo, abbandonato nella vecchiaia. Ho anche molto tempo, posso permettermi di fare con calma.
Riempendo gli scatoloni già lo so, non potrò fare a meno di fantasticare su ogni oggetto, su ogni ricordo, su ogni elemento della mia infanzia che farà capolino. Ecco perché è bene che mia madre rimanga nel suo verde e non mi disturbi, oggi neppure il mio amato sarebbe ben accetto, mentre frugo nel passato.

giovedì 29 novembre 2012

NonC'èBisognoDiEssereFemministe

NonC'èBisognoDiEssereFemministe
Le parole di Carla Bruni scatenano una cascata di proteste su Twitter

La vicinanza


È una cosa che mi piace, leggo i libri degli scrittori della mia città. Poi immagino dove abitano.
Non lo faccio apposta, ma è così. Magari anche loro, ed ugualmente è così.
Non dicono niente, scrivono vaghi, poi quel dettaglio, quello piccolo piccolo che la mente ignora ma che è là, scivola via, dalla penna al foglio.
Allora è finita.
La storia è diversa, giro le pagine e cammino tra i viali; il punto è il semaforo all'angolo, sulla virgola sono al supermercato. Ormai non cerco più il libro, vedo i miei vicini, con le loro storie, con le mie storie.
Preparo un caffè, ho invitato un amico, è ciarliero; ecco ho quanto basta per il romanzo sul vostro comodino.

Ieri sera ridevo di gusto, un comico in TV. Sono bastate due frasi, contorno ad uno scetch già finito, è anche lui un mio vicino, e assai. Non ho più riso. Vedevo la recita della mia vita, dietro allo schermo.

mercoledì 28 novembre 2012

150 anni da Pinocchio a Harry Potter.

150 anni da Pinocchio a Harry Potter.
Mostra illustrazioni di Salani, 150 anni di immagini

No finning | noelife.it

No finning | noelife.it
Decreto per fermare il finning

Lo chiamavano dottore


Lo chiamavano dottore, i vicini. Poi, un bel giorno, se ne andò. Parlarono tra loro. Era così educato, era così gentile, per così perbene.
Dal primo piano si diceva che fosse un cardiologo in pensione, il panettiere sosteneva che fosse un professore, la portinaia disse che era stato un grande archeologo.
Nessuno le credette, ma diceva il vero.
Aveva viaggiato in tutto il mondo, aveva dormito nel deserto, aveva sentito sulla sua pelle tutte le condizioni climatiche esistenti, era stato nomade trent'anni consecutivi...
Non faticherete a credermi, se dico che quella routine sedentaria degli ultimi tempi lo uccideva.
Dunque partì.
Un fremito lo divorava dentro e lo spinse a vagare in ogni direzione, una folle ricerca. Cercava quegli occhi, quella donna che li aveva in viso, aveva incrociato lo sguardo con il suo, una volta, prima di partire per la prima delle volte. E lui, per avere quegli occhi non sarebbe mai partito, poi quegli occhi se ne erano andati e lui sì, era partito. Tutti quei viaggi non li avevano dimenticati, tutti quei viaggi per non andare a cercarli, tutti quei viaggi che non erano riusciti a cancellare il loro destino.

martedì 27 novembre 2012

Il caffè della crudeltà | noelife.it

Il caffè della crudeltà | noelife.it
Un caffè carissimo venduto sulla pelle degli Zibetti

Il barboncino


Le giornate della signora si assomigliavano tutte, silenziose giornate monotone. Ma non era stato sempre così. Da giovane la donna era considerata, ciò che, con poca delicatezza, prende il nome di asociale. Non si era mai sposata, fuggiva conoscenti e amici di infanzia, in ufficio si mimetizzava tra le scrivanie. I suoi vicini da una vita la definivano strana, se non peggio, ma a lei andava bene così, era gelosa della propria solitudine, passava la vita ad occuparsi della sua più grande passione, passione che, nonostante i tentativi, non riuscì mai a trasformare in un mestiere. Si dichiarava comunque soddisfatta. Con se stessa, sia chiaro, ogni parola in più veniva evitata.
Poi tutto cambiò, incontrò l'amore. Il suo amore aveva le sembianze di un barboncino, altrettanto silenzioso della padrona, la quale padrona mai, fino a quel momento aveva desiderato un cane, ma non ebbe il cuore, nella sera fredda e piovosa di Gennaio che fu, di lasciarlo là, in mezzo alla strada, indifeso e abbandonato, dopo che l'aveva seguita sin dal supermercato.
Portò dunque in casa due buste di spesa e un trovatello; da quella sera cucinò per due.
Il trovatello non ebbe mai un nome, diventò la sua fedele ombra, soppiantò addirittura la sua originaria passione.
Come tutti sanno, suprema la legge della natura, venne anche la sera in cui il trovatello morì; l'anziana signora era felicemente neopensionata, finalmente poteva godersi appieno il suo vecchio cucciolo.
Era di nuovo Gennaio, un'altra sera fredda e piovosa.
La signora ne soffrì molto, e ancora ne soffre, l'unico affetto degli ultimi lunghi anni. Nei primi periodi pensò di impazzire, perché strana sì, ma pazza non lo era ancora, come molti già affermavano da tempo. Poi si calmò.
Fu allora che le parole si vendicarono, e tutte quelle che non aveva voluto, nè dire nè udire durante quegli anni le si riversarono contro. Ironia del destino, con la voglia di parlare si svegliava, e con la medesima voglia si coricava. Non avvezza ai rapporti sociali non riusciva a fare nuove conoscenze, quelle vecchie la evitavano da sempre; se escludiamo le cassiere, il commesso e la postina mezza cieca, con i quali talvolta riusciva a parlare, se si può dir parlare quello, rimaneva solo il nuovo vicino, quel ragazzo serio che vedeva uscire ogni mattina e di cui ogni sera attendeva il ritorno.

lunedì 26 novembre 2012

una lettera


Una bottiglia vaga nel mare. È una bottiglia di vetro opaco, verde scuro. Il tappo di sughero ben sigillato con la cera. Sembra provenire dai tempi remoti e da leggende della superstizione popolare. Siamo a largo della Sicilia.

Karol!
Mio amato giglio, e vento odiato. Solo il mio cuore sa, l'amore che mi hai infuso dentro appena ti ho visto, e il dolore che mi hai provocato, da quando ti ho meglio conosciuta.
Figlia della libertà, mi sono illuso di poterti tenere in gabbia, povero sciocco che sono.
Ho causato pene ad entrambi. Nonostante tutto, spero ogni giorno di ritrovarti; che tu, uccellino, torni da me.
Non sono o no, un meschino uomo triste?
Poterti avere, l'abbaglio più grande della mia esistenza.
Ogni sera, torno a passeggiare sulla riva, un uomo solo con la sua fedele pipa, nella vana speranza di ritrovarti, acqua di fonte per la mia povera anima, altrettanto bella, pura e sfuggente.
Da sempre.
E, ogni sera, l'incontro muore dentro me, torno a casa, anche il passo silenzioso del Persiano mi è angusto, nella notte stellata.
Non ti voglio rattristare con lo strazio di un povero amante, ti scrivo per parlarti di tuo figlio, mio figlio, nostro figlio, unico frutto di uno sterile amore. Ma era dunque amore, il tuo? O capriccio passeggero di una mente troppo labile.
Anche da lui solo delusioni; poichè, occhi di gatto, non ti sei portata via anche lui, nella tua fuga? Lui che ha i tuoi occhi felini e nel corpo cova la stessa brama, la stessa inquitudine, lo stesso febbrile bisogno, di cosa non si sa.
Guardo lui e vedo te, le sue mani narrano per me i dolori che mi hai provocato.
Speravo avesse ereditato il mio carattere almeno, dal momento che con tale fardello sulle spalle mi hai abbandonato. Ma io sono medico, non padre, e padre mai lo sarò.
La sua natura si è dunque plagiata, sull'immagine di una madre che mai ha conosciuto e di cui non sa niente. Almeno non da me, l'unico nell'isola ad aver annusato la tua essenza.
Ho creduto negli ultimi anni che si fosse ravveduto, ottimi studi in medicina lo avrebbero condotto a prendere il mio posto, mio unico desiderio riguardo alla sua vita. Ebbene, proprio ieri sera mi ha profondamente deluso, la stessa delusione che da più di venti anni mi arde, la stessa delusione che mi infliggesti tu, sua madre.
La sua pelle, che ha il tuo stesso sapore, ha inspiegabilmente lasciato gli studi, di punto in bianco. Farà il guardiano della spiaggia, sai che onore. Compagno di una donna fuggita e padre di un anonimo portinaio del mare. Che soddisfazione!
Vanvera di sogni e desideri, inclinazioni e bisogni naturali. Quando capirete che sono solo parole vane, che la vita non è luogo di sognare? Non avrei mai mai salvato tutte le vite umane che mi sono capitate nella mia carriera, se mi fosse trastullato nelle vostre chimere.
Si aggiuange amarezza ad altra amarezza, ma forse tu, attrice girovaga, non conosci tale parola. E come potresti? La tua vita scorre cieca, nell'incoscenza dei tuoi desideri.
Ti imploro ancora una volta, torna e cambia per me. Sei sempre in tempo, come io sono sempre in tempo a mostrarti cosa è la vita se tornerai.
Lo sarò sempre, fino alla morte.
O mare, talvolta impetuoso, talvolta calmo, ora tiepido e ora freddo, trasparente come la purezza, nero come la paura, porta il mio messaggio alla mia amata Musa che io tanto odio; portaglielo per me, ovunque ella sia.
Giuseppe

giovedì 22 novembre 2012

Quando la polemica precede il film

Quando la polemica precede il film
Lo Hobbit non è ancora uscito ma fa già polemica

una scelta


Tra le mie molte convinzioni, c'è che ciascuno di noi sa, quale è stato l'ultimo momento dell'infanzia, ciascuno conserva per tutta la vita il ricordo dell'attimo, della stagione, dell'avvenimento in cui ha avuto la consapevolezza di essere ormai cresciuto. Nella mia vita la differenza tra il Michele bambino e il Michele giovane uomo vive in un'estate, l'estate della maturità.
È stata la prima estate diversa da quelle che avevo vissuto fino a quel momento, è stata la prima estate che non trascorso insieme al mio amico Carlo.
Qualcosa era cambiato, non potevamo più essere i due adolescenti sognatori e idealisti, dovevamo affrontare la vita vera. Mentre io studiavo per gli esami, Carlo era partito per il suo primo torneo importante, a Parigi. Solo dieci mesi prima, seduti sulla sabbia a guardare il tramonto, potevamo crogiolarci in decisioni fini a sè stesse.
Il ragazzino timido, il cuore d'oro e le passioni strampalate che si tiene alla larga dal mondo, e il suo amico che ama il mare, credendo, come l'altro, di voler vivere senza accettare compromessi, non esistono più; al loro posto due giovani uomini, alle prese con le prime vere scelte.
La prima estate senza Carlo, mi sentivo solo in sua assenza, avere tanti amici non bastava, il rapporto genuino che avevo con lui non era replicabile. Ero tuttavia immerso nello studio, volevo uscire con il massimo dei voti, per rendere mio padre fiero di me, almeno una volta nella vita, vederlo sorridere. Avevo preso l'abitudine di studiare in spiaggia, dando un aiuto al vecchio Gaspare, il guardiano del litorale. È una cosa che ho continuato a fare per anni, andare ad aiutarlo appena avevo un attimo di tempo, fino a che non è andato in pensione. A causa mia.
Per me era solo un piacere, capite?
Carlo venne solo qualche giorno, fine Giugno, poi ripartì e ricominciò i suoi allenamenti. Lo vedevo limpidamente, anche lui non era più un ragazzo, aveva preso la sua strada. Fosse rimasto di più, magari la mia vita sarebbe stata diversa, almeno in quegli anni. Il mio amico, seppur più giovane di me, era già più maturo.
Così non andò, sono costretto a narrarvi quali furono i fatti, prendendo io tutte le responsabilità di ciò che avvenne. Ancora non avevo finito di dare gli scritti che comparvero, in casa, quiz di preparazione per l'ammissione al test di medicina.
Io non chiesi niente, lui neppure disse niente; preso il diploma iniziai ad esercitarmi su questi. Ne parlammo solo una volta, nel corso dell'estate.
"Il test è il 7 Settembre."
La notizia mi colpì appena uscito dalla doccia, lui, pipa in mano, stava per uscire a passeggiare. Il persiano di turno ci guardava, indifferente.
Non avevo mai creduto di studiare davvero medicina, prima di quel momento, ma non mi opposi. Ancora ora mi chiedo il perchè. Potrei dare la romantica spiegazione che tentavo di riscattare la memoria di mia madre attraverso la mia persona. Molto commovente, purtroppo, potevo ingannarmi, a quel tempo, adesso sono decenni che non mento a me stesso.
Fu tutto più prosaico e meno sublime.
Mi lasciai trasportare.
A fine estate tornò di nuovo Carlo, per un saluto. In quei pochi mesi era diventato un uomo, la decisione di abbandonare tutto per dedicarsi solo al tennis gli aveva mutato lo sguardo. Fino all'ultima volta che l'ho visto fu accompagnato da quello sguardo e da quella determinazione. Lo sguardo di un uomo che crede in sè stesso, lo sguardo di un uomo in pace con sè stesso.

mercoledì 21 novembre 2012

Treno


Uno dei due ragazzi ha la felpa verde, neri riccioli, sta giocando con una barchetta di carta fina. Una folta barba nasconde il volto quasi infantile. Una cuffietta all'orecchio, l'altra è per il suo compagno, batte il piede a tempo, canticchia una melodia allegra.
Il suo compagno quasi dorme, appoggiata la testa sul vetro del finestrino, gli occhi socchiusi. Azzurra la felpa e azzurre le scarpe. Ha corporatura robusta, un tatuaggio da cattivo sull'avambraccio e lunghi capelli biondi. Nonostante ciò è tenero, nella sua ostentata sicurezza da adolescente.
Siamo partiti insieme, da una sperduta stazione. Io con il mio carico di pensieri, loro con la loro vociante allegria; io ancora lavoro da sbrigare, loro con i racconti delle loro avventure; io senza più fretta, loro con l'adrenalina dell'impazienza.
Il treno è in viaggio da alcune ore, dopo il tramonto, questa buia sera autunnale ci ha inghiottito con la sua pioggia, fredde luci distanti illuminano a giorno la carrozza. Luci cattive che mettono a nudo le anime, le luci della solitudine.
Tra poco scenderemo, ho fatto chiaro nei miei pensieri, ho finito il mio lavoro, mi sono messa comoda. I ragazzi hanno perso il loro colore, il loro vociare, la loro esuberanza. Aspettano stretti nelle loro poltrone, confortati dalla loro musica, iniziano a sentirsi piccoli in un mondo troppo grande, iniziano a capire che quel mondo di cui fino a ieri erano i padroni non è l'unico mondo.
Mi dispiace, ragazzi, il capotreno ha fischiato, devo scendere, dovete scendere, dobbiamo scendere, il domani è arrivato e voi, e io, e tutti, come sempre, siamo impreparati.

martedì 20 novembre 2012

Contatti nel blu | noelife.it

Contatti nel blu | noelife.it
Gli squali in mostra

One Life, è in scena la vita | noelife.it

One Life, è in scena la vita | noelife.it
Documentario in arrivo

Incipit


Molti anni fa, quando scrivere era ancora un sogno, ed ero solamente un mediocre fotografo, avevo l'idea di pubblicare un libro sui treni della mia vita.
E questa frase potrebbe voler dire qualsiasi cosa.
Ogni volta che salgo su di un treno è come una nascita, e scendendo muori; condensate in poche ore, emozioni di ogni genere. Al di là del vetro, le immagini acquistano spessore, un'identità che chiama per essere meglio osservata, patina nuova su elementi già visti. I paesaggi risultano più appetibili; quando viaggio in treno desidererei vivere ovunque. Gli incontri forzati negli scompartimenti e nelle banchine pulsano predestinazione, e ti scopri con più interesse per il tuo vicino di posto che per quello di casa. Una voglia insana, lo sai, eppure ineludibile, assale te in questi momenti, capire chi, come, perché, scoprirli tutti, condividere chilometri con le loro storie.
Per me è una malattia, lo è sempre stata.
Il mio fantomatico libro d'esordio, così come lo vedevo già rilegato, si componeva di tanti capitoli quante le volte in cui ero salito su di un treno, e di ciascun viaggio narrava il ricordo più assordante. Chiedo scusa già da ora, qualche volta i miei ricordi sono estremamente rumorosi, e il fastidio non è poco.
Poi lasciai perdere, scrissi di un fotografo fallito e feci fortuna; il libro sui treni rimase là, già rilegato, nella mia immaginazione. Lo farò adesso e parlerò solo di un treno, un treno in particolare, quel treno che ha cambiato la mia vita.

lunedì 19 novembre 2012

Pellegrino Artusi, Precursore Di Un’epoca

Pellegrino Artusi, Precursore Di Un’epoca
Bookcity milano: la figura dell'Artusi

L'altea marina


Caro Bonsai,
mio caro e unico davvero fedele confidente! Colui al quale posso dire ogni cosa, scrutando proprio in fondo al mio animo, posso confidarti anche le cose che temo dire a mia madre.
Questa mattina mi è capitato un fatto totalmente inspiegabile, così effimero e così irreale insieme, che temo abbia lasciato un segno, indelebile dentro me.
Sono ancora molto turbata.
Buon bonsai, se non avessi te, a chi lo potrei raccontare?
Questa mattina mi sono svegliata all'alba, come ho preso l'abitudine a fare, e sono scesa nell'orto di mia madre. Lei preferisce lavorare nelle ore più fresche della giornata e le do pienamente ragione. Io, però, più che aiutare lei, inizio dedicandomi alla mia altea marina. Sai, la pianta che il papà mi ha regalato per il compleanno?
Adesso che ha iniziato a fiorire è bellissima, e la fioritura andrà fino in autunno inoltrato. Mentre, a fine inverno, papà m'insegnerà a potarla. Adesso è un cespuglietto, ma quando crescerà sarà alta più di due metri e larga almeno uno, che bello non vedo l'ora. Intanto mi godo questi fantastici fiori. Sono attinomorfi a forma di coppetta, cioè, per te che sei un bonsai e non sai un accidente delle altre piante, sono quei fiori che con i petali che partono in tutte le direzioni da un punto centrale. Blu violetti e la parte centrale porpora.
È molto bello che i miei genitori mi spingano nella mia idea di dedicarmi al giardinaggio e avere una mia serra, un giorno.
È vero che vi sono portata, però, con i loro consigli, chiunque avrebbe il pollice verde.
Insomma, ero lì inginocchiata davanti alla piantina, quando mi sono ritrovata da tutt'altra parte. Ero in una spiaggia bellissima, lambita da un mare addormentato, rosato per il sole nascente. Non era la spiaggia di Laguna, sono sicura, ma avevo la sensazione di conoscerla bene, era troppo familiare per non averla mai vista.
Strano, vero? L'unica spiaggia in cui sono mai stata è questa del mio paese.
Inoltre mi sembrava di essere lì, e di non esserci insieme. Come fossi rarefatta.
La spiaggia inizialmente mi pareva deserta, poi ho visto la figura di un giovane di lontano. Non so perché, ma anche se non lo vedevo in viso ero sicura che fosse giovane; era seduto sulla riva e mi dava le spalle. Volevo avvicinarmi per capire bene e tutto è tornato come prima, non ho avuto neanche il tempo di mettere in pratica il mio progetto.
Di nuovo davanti alla mia bella altea, in ginocchio sulla terra umida. Ero sicura di non essermi mai mossa, anche la posizione rimaneva la medesima, ma mi sentivo strana, un alone salmastro mi avvolgeva, facendomi girare la testa.
Mia madre era vicino a me e appariva turbata. Alle mie domande ha risposto niente e si è rimessa a zappare. Mi è sembrata strana, ma forse strana lo ero solo io. Mi sono avvicinata per dirle tutto...e poi quell'idea di irrealtà che mi pervadeva mi ha bloccato. Ho detto semplicemente che non mi sentivo bene e che tornavo in camera, senza mentire perché la testa mi gira davvero molto.
Mentre io salivo le scale barcollando, l'ansia saliva dentro di me. Sempre di più.
Sono forse impazzita? Cosa dovrei fare? O è solo la mia fervida immaginazione da ragazzina?
Ho paura.

domenica 18 novembre 2012

giovedì 15 novembre 2012

La folla


In mezzo a tutti loro, una donna. In un angolo. Seduta. Raccolta. Appena respirava. Eppure vedevi subito che era là. La folla era disordinata, vociante, volgare, oltremodo rumorosa. La folla era sporca, puzzava. La folla si accalcava, e più si avvicinavano gli uni agli altri, più la loro disperazione sembrava meno.
La donna no, non so perchè fosse stata là; la donna era elegante.
Tacchi alti, neri stivali molto classici e un pantalone severo, la giacca di buon taglio, senza una piega. La piega ai capelli, impeccabile, il trucco da bambola di cera. Gli occhi immaginateveli, grandi occhiali li coprivano, una lieve fragranza avvolgeva quel corpo. Il corpo non sembrava tale, stava, come disegnato; non un'espressione, non un gesto, niente rivelava la vita in lei. Niente.
Intorno un circo di colori. Ma lei no, era lontana, lontana da lì, chissà dove. Due uomini parlavano, e per parlare dovevano urlare, una madre riparava con il suo corpo un passeggino, una ragazzina volgarmente truccata, un vecchio sonnecchiava, un ragazzo con un cellulare.
Lei continuava a non esserci e la vita intorno non la toccava.

mercoledì 14 novembre 2012

La birreria


In Germania, nostra madre aveva venduto ogni cosa, i nostri pochi parenti erano ormai morti, e le amicizia perse di vista. Era la prima volta che mi capitava di nuovo, dover rimanere lassù per tutto quel tempo, le riprese sarebbero durate almeno un anno, fui costretto a trovarmi un appartamento da affittare.
Vi dirò, non andò così bene.
Nello stesso concetto di prendere un appartamento in affitto nella mia terra d'origine, abbandonata nell'infanzia, qualcosa grugniva, dentro me, cosa non riesco a spiegarvelo. Già non avevo accettato il lavoro di buon grado, io sono uno scrittore, capite, parole, carta e inchiostro, non attori scene e telecamere; Oleg aveva dovuto usare tutta la sua perspicacia e tutto il suo buon senso per convincermi.
L'idea non mi piaceva, ma mi sarei rassegnato; un presagio infausto iniziava a strisciare lento.
Oleg mi consigliò un residence vicino agli studi, una nuova costruzione, moderna e funzionale. Questa volta mi impuntai, facendo di testa mia. In un quartiere distante, in periferia, c'era un parco, bello lo ricordavo, con un simpatico laghetto; mio zio Felip vi portava sempre me e mio fratello, la domenica mattina. Ho vaghi ricordi di anatre, o forse papere, o forse è solo la mia immaginazione e qualche film dimenticato. Volevo abitare là, vivano a quel parco della mia infanzia, insieme ai ricordi di mio fratello e di mio zio, in quel vecchio quartiere in rovina. Trovare qualcosa fu una vera impresa, fui costretto ad accontentarmi di due stanzette poco illuminate, che affacciavano direttamente sulla strada. Quella tana aveva tutta l'idea di essere nata come garage e poi ristrutturata in un secondo momento, puzzava di chiuso e di muffa, un odore assordante ad ogni ora.
Ma era vicino al parco.
La sera rincasavo tardi e spesso mi fermavo su una panchina, tra quelle davanti al laghetto, a riguardare gli appunti della giornata, a leggere, a scrivere, a pensare, a rilassarmi, a sentirmi a casa, vicino al mio natio cordone. Davanti a quel lago scrissi la mia prima poesia, e, da quella sera, talvolta ne compongo, inedite, quelle sono solo per me. Più che poesie, pensieri volanti.
E torno, nuovamente a sera.
Mi spoglio dei pensieri,
che con me hanno vagato,
nudo rimango ad ammirare
la semplicità di un ricordo vago,
sponde morte di un lago di città.
Alcune sere non tornavo alla tana se non a notte inoltrata. Prima, non vi riuscivo. Erano quei giorni in cui l'inquietudine saliva fitta, come nebbia nel mio cuore; erano le sere in cui girovagavo a lungo senza meta, nella buia città quasi deserta. Agli angoli delle strade, agli incroci, ai semafori... chiedevo indicazioni a solitari passanti, per il gusto di sentire una voce diversa dalla mia, che urlava nella testa pensante. Entravo in qualche squallida birreria lontano da casa, lì rimanevo fino a che non m'acquietavo.
Era una di quelle sere.
Oleg, alcuni chilometri da me, sedeva in un lussuoso ristorante, discutendo le sorti del nostro lavoro. Avevamo già iniziato le riprese ma, come spesso e purtroppo accade, ancora erano troppe le incognite. La bella quanto dura direttrice della casa di produzione concedeva la sua stessa persona, per le fondamentali decisioni. Io non ero stato invitato, e se da un lato mi bruciava questo declassamento, dall'altro ero ben felice di aver evitato quella cena faticosa.
Lo avrete capito, era un periodo in cui mi limitavo a scivolar via tra i vari avvenimenti della mia vita, aspettando di tornare alla vecchia cara routine.
Pioveva fitto e regolare, una pioggia grigia e insistente, ricordava l'autunno alle porte. Avevo camminato a lungo, ero stanco e bagnato, finito in una zona che non riuscivo a riconoscere, forse appena fuori città. In una strada male illuminata, un insegna di legno, con lettere sbeccate. Recava la semplice parola BIER, e una fioca luce proveniva dall'interno. Scesi i pochi gradini ed entrai in un classico locale bavarese, vuoto eccetto per la giovane, che di bavarese non aveva nulla, dietro al massiccio bancone. Era intenta a sistemare qualcosa alle sue spalle, quindi non mi vide arrivare, nè mi sentì, forse troppo concentrata per farlo. Si girò di colpo, arrossendo, come se fosse stata colta in atti disdicevoli, tentò malamente un sorriso di accoglienza. Era una bella ragazza, dagli occhi dolci, seppur allora l'imbarazzo le confondeva i lineamenti.
Ordinai qualcosa per rifocillarmi, sedendomi ad aspettare.
Iniziai a leggere il libro che avevo con me, che io scriva in tedesco non presuppone che io legga nella stessa lingua; l'italiano, stampato su un foglio di ruvida carta, è molto più appassionante.
La ragazza arrivò con la mia birra, i miei wustel, e i miei crauti. Era buffa, nel suo costume, produceva uno strano contrasto agli occhi. Vidi che sbirciava tra le righe. Non disse niente ma, prima di tornare dietro al suo massiccio bancone, dette l'ultima occhiata al libro, evidentemente incuriosita.
Continuavo a essere l'unico avventore, ogni pochi minuti controllando il cellulare, cercando un cenno da Oleg, che non arrivava. Volevo, dovevo, sapere come era andata con la bella e dura Asli. Vedevo il mio corpo dall'esterno, cambiare posizione ogni pochi minuti, la mia inquietudine trasmettersi intorno, sentivo gli occhi impauriti guardarmi con interesse. Lentamente, la birreria si riempì, mi dimenticai di Oleg, di Asli e di lei senza nome, fui catturato dalla lettura.
Posso dire, letteralmente, senza sbagliare, che il sonno mi svegliò dal mio torpore; mi riscossi e decisi di tornare alla mia tana. Alzandomi e dirigendomi verso il bancone non trovai più la giovane dai lineamenti delicati ma un ragazzone rubizzo, con la stazza da rugbysta. Chiedendo indicazioni per tornare al parco con il laghetto, mi sorpresi che fosse così vicino.
Per alcuni giorni non pensai più alla vecchia birreria. Nè alla giovane.

Un sogno


Oggi ho conosciuto uno scrittore, indossava un vestito bruttissimo, ma era uno scrittore. Portava con sè un'agenda, piena di numeri e simboli, ma era uno scrittore. Abbiamo conversato per un poco, il suo fare mi annoiava, mi sentivo tradito, non era brillante come doveva.
Oggi ho conosciuto un cantante ed era simpatico, le sue battute erano argute, ma la sua voce insopportabile; era un cantante, ma il sentirlo parlare mi infastidiva. Mi ha presentato la fidanzata.
Oggi ho conosciuto una modella, fidanzata con un cantante. Non era truccata e piena di difetti sul viso, ma era una modella. Insieme a lei, un'amica.
Oggi ho conosciuto una ballerina, vestita come un fiore ma scordinata nei movimenti; stava cadendo, dall'alto dei suoi tacchi, ma era una ballerina.
Tornando a casa mi sono fermato a parlare con un uomo; oggi ho conosciuto anche un giornalista. Era molto affabile ma sembrava un perfetto ignorante.
Dopo tutti questi incontri sono giunto a casa, e mi sono svegliato. Al di là dello specchio ho visto un uomo. Ho conosciuto il signor Nessuno, era nessuno, ma era felice.

martedì 13 novembre 2012

Una storia romana


Una coppia si sposa, confusa tra le tante altre della capitale.
Lui è Luigi, 30 anni; suo padre possiede la maggiore catena di ferramenta del Lazio. Adesso Luigi è il direttore del negozio più grande, più importante, più centrale della catena. Spera che suo padre gli passi, interamente, lo scettro, e a breve, ma teme di dover dividere la cospicua eredità con la sorellastra, avuta dal genitore fuori dal matrimonio. Come quest'ultimo, cresciuto negli agi, con la sua bella pappa pronta, il suo massimo impegno è stato sempre fare la bella vita.
Lei è Teresa, 20 anni; viene dai quartieri popolari. È una ragazzina sciocca e frivola, attratta da un mondo che non le appartiene, cresciuta tra gli stenti. Non aveva esitato a usare il suo bel corpo per esaudire i suoi capricci. Finalmente riusciva ad accaparrarsi un bel riccone, gnam gnam.

In una clinica privata della capitale nasce Sofia, la primogenita di Teresa, 22 anni.
Il padre Luigi è assente, questioni di lavoro. O fandonie.
Teresa non si preoccupa troppo, lo avrebbe già lasciato se non fosse che è estremamente ricco. Da due anni non fa niente dalla mattina alla sera, oltre che a godersi i soldi dell'amico, e a ripagarsi degli stenti patiti nell'infanzia.
Per festeggiare la nascita, Teresa regala un'auto nuova alla sorella gemella, una decappottabile d'epoca.
Molto bella e molto lussuosa.
Uno degli aspetti più interessanti della nuova vita era che la famiglia del marito era facoltosa, ma non conosciuta, poteva godersi la vita senza dover preoccuparsi degli obblighi della mondanità.
Tra un anno si regalerà un bel nasino nuovo e si darà una gonfiatina alle labbra.
Luigi se ne accorgerà appena.

Nasce Ivan, nella stessa clinica dove, dieci anni prima, era venuta alla luce la sorella maggiore Sofia. Teresa ha 32 anni e due tette nuove, sode da far paura.
Recentemente è stata tentata di lasciare il marito, ma la morte del suocero le ha fatto cambiare idea. Luigi adesso possiede tutta la catena di ferramenta, alla faccia della sorellastra. Ha solo 42 anni, ma la sua vita di eccessi lo fa sembrare più vecchio.
Va a vedere il figlio e, per l'ennesima volta, non si accorge del seno nuovo di Teresa.

Una Teresa quarantenne mette al mondo la sua terza figlia, Benedetta, nella solita Clinica, ormai nota. Ivan ha 8 anni e la primogenita Sofia è appena diventata maggiorenne.
La donna ha già prenotato una bella seduta di liposuzione per il mese prossimo, ovviamente anche per la sorella. Sembrano ancora due ragazzine, mentre il marito cinquantenne invecchia sempre di più. Continua a essere un gran Don Giovanni, e con i suoi saldi si circonda di ragazzine vere.
Non si reca alla nascita di Benedetta, è impegnato con una delle sue amichette, che, tra parentesi, è anche amichetta di Sofia. Sua compagna di classe.
Se Teresa rimane ancora con lui è per la convinzione che a breve tiri le cuoia, così potrà ereditare un bel gruzzoletto.
I suoi capricci sono sempre più lussuosi, e la sua fame di denaro smodata.

lunedì 12 novembre 2012

L'uragano Sandy colpisce anche le tartarughe | noelife.it

L'uragano Sandy colpisce anche le tartarughe | noelife.it
Sandy ha interrotto il boom di nascite delle tartarughe marine

La fedeltà di Dasher | noelife.it

La fedeltà di Dasher | noelife.it
Dasher, il cane che salvò il padroncino di 2 anni

In Spiaggia


Non dimentico, non posso dimenticare.
Anche al mio amico la vita stava cambiando molto, in quegli stessi anni aveva appena iniziato a cambiare veramente, si era svegliato dal suo torpore. Finalmente.
Arrivai in Sicilia poco dopo Ferragosto, lo trovai come sempre, sulla spiaggia che vigilava. Di fianco, un testo di medicina. Ancora non riuscivo a capire quella dedizione per degli studi che non lo interessavano minimamente.
Ho lasciato l'università, le sue parole di saluto.
E quel libro? Indicai al suo fianco.
Abitudine. Poi rimase in silenzio.
Tuo padre, come l'ha presa? Conoscevo abbastanza bene il vecchio Giuseppe.
Non lo sa ancora. Ho deciso di prendere il posto di Gaspare, fare il guardino della spiaggia. È quanto meglio possa desiderare dalla vita.
Quando farete il passaggio di consegne in municipio? Guardiano della spiaggia era un titolo comunale.
Ancora non gli ho detto che voglio prendere il suo posto.
Hai già dato la disdetta ufficiale in facoltà? Fissavo i suoi occhi grigi.
A settembre quando riaprirà la segreteria; adesso sarebbe inutile. Si strinse nelle spalle, un gesto che solevo fare spesso io.
Ma scusa hai detto che hai lasciato, ma sembra che non hai lasciato proprio un bel niente. Avrai pensato di lasciare, magari. Mi sono finalmente seduto al fianco di lui.
Quello che conta è la risoluzione, sai? I suoi occhi mandavano lapilli, un gatto al buio.
Mi raccontò una storia strana, una specie di visione che aveva avuto, una mattina, in cui in realtà non aveva visto proprio niente, ma aveva capito che non poteva continuare a quel modo. Doveva seguire il suo essere.
L'episodio mi convinse poco, ma quello che conta è la risoluzione, come aveva appena detto lui.
Ero felice, il mio amico si era reso conto di star vivendo la vita del padre e ne voleva porre rimedio, doveva cercare la sua.
Lo convinsi a render noto il fatto prima della mia partenza; parlò con il padre e con Gaspare quella sera stessa.
Le reazioni furono molto differenti.

domenica 11 novembre 2012

giovedì 8 novembre 2012

Triste come un uomo


Per l'ultima volta, si disse, è l'ultima volta che mi sveglio così. L'uomo sapeva che non era vero, ma continuava a mentirsi, ogni mattina.
Lo aiutava ad alzarsi e ad affrontare la giornata; giornata che sapeva sarebbe stata triste, triste come era lui, triste come era diventato. Sono diventato un uomo triste, disse al suo specchio, mentre si radeva. Non era un buon modo per aiutarsi.
L'uomo triste andò in ufficio e vi rimase fino a tardi; rimaneva spesso fino a tardi in ufficio, almeno quando poteva; l'uomo triste era bravo nel suo lavoro, e lavorava molto, molto più del dovuto, molto più degli altri colleghi, molto, più di chiunque conoscesse. Solo lavorare gli distraeva la mente.
Alcune mattine usciva di casa con la borsa della palestra, il completo da ginnastica che profumava di bucato, un morbido accappatoio, il bagnoschiuma tonificante nuovo, un paio di ciabatte mai usate. Non faceva la differenza, sapeva già, uscendo, che mai sarebbe andato. Non più.
Prima non era così, prima i pensieri che durante l'allenamento lo venivano a trovare non erano dolorosi.
In ufficio guardava lo schermo con la testa inclinata, e una mano a sorreggerla; doveva risolvere un difficile problema, sempre dei compiti più difficili si faceva carico, aveva meno possibilità di distrarsi. Quando si alzava, con obbiettivo il distributore dell'acqua, levava la mano dai capelli, molti fili rimanevano sul palmo. La folta chioma dei tempi felici lo abbandonava, come lo avevano già abbandonato i tempi felici, da tempo. La massa ricciola era nera, quel nero che ti giri a guardare, quel nero che sembra tinto, nero piume di corvo dopo un acquazzone. I capelli che perdeva erano grigi, il grigio dei pensieri.
L'uomo tornò a casa e fece quello che ogni sera faceva. Da solo, in silenzio. Fece la doccia, stirò una camicia, cucinò con cura e assaggiò solamente il cibo che aveva nel piatto, poi se ne andò a letto. L'uomo non prestava più attenzione ai dettagli, non fece più caso a niente, molti di essi un tempo lo avrebbero fatto ridere di gusto, magari con lei.
Miliardi di anni prima.
Si addormentò con fatica, come sempre succedeva, con la stessa convinzione nel cuore, la stessa di tutte le sere.
Domani sarà di nuovo così.
Questa era una convinzione mai l'aveva abbandonato; anche nel tempo felice, chiudendo gli occhi, domani sarà ancora così, ma con il sorirso sulle labbra.

Diario di una botanica


Caro Bonsai,
sono di nuovo qui che ti scrivo, se continuo così diventerò una scrittrice e non una fioraia.
Di nuovo ho l'animo in tumulto.
Oggi è stata una giornata molto intensa, molto strana, molto triste, molto importante per la mia vita. Ho una tale confusione in testa, solo due cose chiare.
Papà sta male.
Non sono pazza, come credevo da due mesi.
Il resto è una gran confusione, te l'ho detto, vediamo se riesco a mettere un barlume di ordine.
Il papà era a letto con la broncopolmonite, da una settimana oramai. Aveva ragione la mamma, quando non voleva che andasse a lavoro con l'influenza. Ma lui senza piante non vive, ed è più testardo di un mulo. Diceva che l'aria settembrina dei giardini l'avrebbe guarito, invece l'ha inchiodato a letto.
Dovevi sentire la mamma, una broncopolmonite alla tua età non è una passeggiata, e altre storie simili. Lui faceva, ma io sono forte come una quercia, sono un baobab. Sempre voglia di scherzare.
Questa mattina era peggiorato molto e la mamma ha chiamato il vecchio dottore, che poco dopo era qui. Mentre lui si dirigeva verso la camera, io e lei rimanevamo sedute al tavolo della cucina, il bricco del caffè ancora intatto tra noi.
Non dicevamo una parola ma leggevamo emozioni in volto.
La stanza ha iniziato a essere molto rumorosa e il tempo non passava più.
Finalmente il medico ci ha raggiunto, passo pesante e aria grave, si è seduto e si è servito una tazza di caffè, lo stesso che noi non riuscivamo a bere. Mamma l'aveva letteralmente buttato giù dal letto.
Lui parlava e io ero come in un altro mondo, ha detto che l'infezione si era allargata, alcuni passaggi poco chiari, e, in conclusione, che mio padre aveva contratto una forma di meningite fulminante.
Contratto, che parola brutta.
Mia madre si sforzava di non piangere; papà ha al massimo una settimana di vita e forse poche ore con le proprie facoltà mentali integre. Ci ha lasciato due scatole di antibiotici ma ha detto di non nutrire false speranze. Sarebbe tornato in serata.
Lui è uscito e la mamma è salita nella camera dove giaceva il papà, io non mi sono mossa. Non sono riuscita a fare niente, nè a formulare alcun pensiero, gli oggetti intorno a me apparivano ora falsi, ora sfocati, la terra e la sedia erano due entità distanti.
Nozione del tempo nuovamente persa.
Mamma è venuta a chiamarmi, perchè il papà mi doveva parlare. Ho temuto per un istante qualcosa del tipo ultimo saluto alla figlia, straziante per entrambi e inutile a modificare il corso degli eventi; ma lui non è il tipo.
Avevo ragione, aveva qualcosa di più importante da riferirmi, aveva una RIVELAZIONE.
Mi ha parlato della mattina in cui mi capitò il fatto strano, tu sai di cosa parlo, la mamma gliel'aveva raccontato quel giorno stesso mentre faceva colazione. Entrambi avevano deciso di confidarmi tutto solo quando uno di loro stava per lasciare questa terra.
Era giunto il momento.
Ha detto che loro sapevano cos'era stata in realtà la mia avventura, e la temevano fin da quando ero più piccola, in fondo mia nonna materna era una delle poche persone con la capacità. Mia madre non l'aveva ereditata e neppure mio padre ce l'ha, è una caratteristica prevalentemente femminile. Si ricordano pochi uomini così a Laguna.
Però sono entrambi iniziati. Ovvero sono tra coloro, pochi, che conoscono e tramandano il segreto del nostro paese, il grande e inquietante segreto. Mi ha parlato di un consiglio, cui anche io sarei stata introdotta, il consiglio segreto degli iniziati, si riuniscono in una grotta.
Si può essere iniziati per eredità familiare, come noi, o per posizione. Il consiglio serve ogniqualvolta succedono problemi, o c'è da gestire qualche imprevisto.
Le domande erano tante; ho preferito tacere.
Sono tornata in camera mia e la mamma è andata a trovare il parroco, che dopo poco l'ha seguita qua per l'estrema unzione.
Dopo ancora, oggi questa casa era un viavai continuo, è arrivata l'ambulanza per portarlo in ospedale.
Non credo che metterà più piede in questa casa.
Mamma è andata con lui, io sono rimasta qui, con la mia angoscia e i miei pensieri.
Scusa, caro Bonsai, se non ti ho scritto di più sulle rivelazioni di mio padre, ma ho paura. Anche se il papà ha detto che non c'è nulla che io possa temere, il tremore si è impossessato del mio corpo.
Le domande non si placano, ma si moltiplicano e si fanno più insistenti.
Perchè la maggior parte dei Laguni è all'oscuro di tutto? Chi sono gli altri iniziati? Quali possono essere le emergenze da gestire? Perchè ho ereditato il Dono da mia nonna e cosa comporta?
Se metto a tacere tutti i miei dubbi, la consapevolezza che forse non sentirò più la voce del mio amato papà mi toglie il respiro.
Quanto vorrei addormentarli per chiudere definitivamente questa terribile giornata.
La tua piccola e terrorizzata

martedì 6 novembre 2012

Una donna


Aveva voglia di parlare e questo non era certo una novità.
La signora si mise alla finestra ad attenderlo. Era anziana ma si conservava bene, non dimostrava più di cinquant'anni.
Sono forse io.
Lui invece poco più di trenta. Almeno così credeva lei, non si conoscevano molto bene. Lui era semplicemente il suo vicino. In realtà non le stava nemmeno troppo simpatico, ma era sempre disponibile per scambiare due parole, ed era questo che a lei interessava. Nient'altro.
Aveva un costante bisogno di parlare negli ultimi mesi.
L'imbrunire catturava il suo sguardo. Un manto scuro s'impossessava della strada, e lei, gli ultimi uccelli sui pali, rimaneva a guardare.
La pace invadeva il tranquillo isolato, non contagiandola.
Viveva inquieta. Inquietamente spostava il peso da una gamba all'altra, la gonna della fine dell'estate lunga fino alle ciabatte. Vecchie, da casa, una fascia con disegnato un motivo geometrico. Inquietamente sistemava i suoi capelli; anni di permanente le avevano fatto dimenticare il suo vero aspetto.
Fu fortunata, il giovane arrivò. Era un uomo come tanti altri, niente in lui rivelava qualcosa di particolare. Sovente, negli ultimi mesi, tardava in ufficio, lo sentiva rientrare a sera inoltrata, quando scuse per affacciarsi, non ve ne erano. Lavorava molto, la donna ignorava anche cosa facesse.
Si salutarono, cortesia appena impercettibile. Lei fece un'osservazione sul tempo, lui spostò la ventiquattr'ore nell'altra mano e rispose meccanicamente. Probabilmente pesava molto.
Aveva il volto tirato, sparì subito dopo dentro il suo portoncino.
Anche la donna fu costretta a rientrare; inquietamente si sedette e accese la tv.

La piaga del bracconaggio | noelife.it

La piaga del bracconaggio | noelife.it
Polenta e usei: gli uccelli protestano

La strada


La strada stesa sotto il sole, sembra allungarsi ad ogni passo. Quello zaino sulle spalle, pesa, fardello di una colpa che sentiva, seppur sapendo di non avere.
Respira la polvere, che alzano i suoi piedi, adesso la strada è diventata un sentiero, non piove da molto nella calda regione.
Il paesaggio, un tempo noto, non le è più familiare, è convinta di aver sbagliato strada. Non un segno, all'orizzonte, che la rincuori. Procede fidandosi del suo istinto.
Si ferma a riposare, appoggiata con la mano a un nodoso tronco, sul palmo la corteccia disegna per lei.
È passato così tanto tempo che... non ci pensare, cammina, la strada è lunga. Lei vuole arrivare, lei ha paura di arrivare, non è certa di sapere.
Il sole si sta abbassando all'orizzonte, è meno faticoso procedere, il riverbero non acceca più.
I piedi, nelle pesanti scarpe fuori stagione, fanno male, avrebbe bisogno di refrigerio. Lei ricordava un ruscello, che non riesce a vedere. Dovrà aspettare ancora, per fortuna la destinazione è prossima.
Eccola, quella collina, adesso ha la certezza di aver imboccato la strada giusta.
Dietro la casa, dentro l'uomo. Finalmente lei è lì davanti. Dopo tutti questi anni è riuscita a tornare, finalmente, dopo tutti questi anni che diritto ha di entrare in quella vita, nuovamente, dopo tutti questi anni non si sente più sicura.
Dopo tutti questi anni, dopo tutta questa immensa attesa, gira la testa per ammirare ancora una volta il suo sogno, poi si allontana.
Lui è alla finestra, e di fermarla non ha il coraggio.  

domenica 4 novembre 2012

La partenza di giugno


Giugno è sempre stato il mio mese preferito, non chiedetemi perchè. A Giugno può succedere tutto. Ed era Giugno. Ed era quel treno. Il mio treno. Il treno che preferisco. Parto di prima mattina e giungo che la serata è al termine; diretto, l'unico diretto tra le due cittadine assai distanti; molte fermate, molte ore, nessun cambio.
Giornate dense su quegli scomodi sedili.
Potresti prendere l'auto. In due ore sei già all'aereoporto, e in un altro paio d'ore arrivi direttamente là. Ancora non capisco perchè ti ostini a voler perdere tutto questo tempo, e a viaggiare così scomodo. Magari tu risparmiassi, no, neanche quello.
Mia madre non capirà mai il mio rapporto col treno. Ho sempre creduto che si ostinasse a non voler capire, adesso ho cabiato idea. Radicalmente. È più probabile che sia io, a non sapere trasmettere la mia idea, a non saper aprirmi verso gli altri, per coglierne i loro, di messaggi. Sono io, quello barricato in me stesso, nelle mie idee e nei miei pregiudizi.
Me lo ha detto quel treno, nella notte di Giugno.
Io, così bravo a scrivere, e parlare, e far parlare i miei personaggi, e inventare storie, e immedesimarmi in uomini invisibili, e capire sentimenti di donne mai nate, io, che creo mondi parallelei, con lo stesso realismo delle mie impronte sulla soglia nei piovosi giorni autunnali, io, che non colgo i suoni della mia vita. Percepisco la melodia ma, senza saperlo, mai avevo udito le singole note.
Avevo chiesto a mio fratello di accompagnarmi fino alla stazione; pochi giorni sarei rimasto, ma avevo con me molti bagagli. I bagliori dell'alba di Giugno sono splendidi, e frizzante l'aria sebbene si annunci già il calore, il profumo della rugiada sornione aleggia.
Ci concedemmo un caffè al bar quasi vuoto, i pendolari non erano arrivati.
"Allora?"
"Allora cosa?"
Si strinse nelle spalle e non rispose. Il fatto è che io e mio fratello sia molto legati, ma, quanto a parlare, è proprio un altro discorso. La mia vita era un maledetto guazzabuglio, arenato come da giovane, nelle fotografie che non ero capace di fare, ma con molti anni in più da sopportare.
"Quanto ti trattieni?"
"Poco, ancora di preciso non lo so, ma poco."
Mi guardava, e dietro a quegli occhi, gemelli dei miei, muto rimprovero colmo di fraterno amore. Io, con il mio carico di inquietudini, di sbagli, di strade interrotte, di ripensamenti, lui con le sue nette limpide definitive scelte. Aveva vent'anni, disse qui, e lì vive ancora, disse questo, e tale rimane il suo lavoro, disse lei, e sono ancora felicemnte sposati. Io...
"Perchè non ti stabilisci lassù in maniera definitiva?"
Effettivamente sarebbe stata la soluzione migliore per il mio lavoro, però...
"Te andresti mai via da qua?"
E lui alzò il sopracciglio, assumendo quella vecchia espressione che, da ragazzo, aveva fatto strage di cuori.

Una ragazza semplice


...serpenti sotto il letto, accendi la luce, veloce...
Una volta accesa la luce la ragazza si sentì più sicura. Tutta colpa di quella piccola fobia nata nell'infanzia.
In un prato vicino casa giocava, con sua sorella gemella e un palloncino colorato che, come i palloncini colorati hanno di vizio, finì su di un cespuglio, e da sotto il cespuglio, disturbato dal fragore delle due bambine, usci un serpentello. Le due bambine, seppur gemelle, niente avevano in comune. La nostra ragazza si terrorizzò, l'altra gli tirò spavalda un legnetto, e più una era terrorizzata, più l'altra diventava spavalda, e più l'altra diventava spavalda più prendeva in giro quella terrorizzata, e più veniva presa in giro più quella terrorizzata si terrorizzava ancora di più.
Un piccolo disastro.
Come c'era da aspettarsi il piccolo episodio si concluse banalmente, la povera e innocua biscia vide bene di strisciar via in tutta fretta e le due sorelline misero il broncio. Se non ricordo male per cinque minuti, ma potevano essere anche quattro o sei.
Da quel giorno a una delle due non passò più la fobia dei serpenti, alla nostra ragazza appunto che finì di vestirsi e scese in strada, un jogging leggero nelle vie deserte.
Aveva dormito poco, ma si sentiva riposata, in forze, sfilava felice lungo le costruzioni addormentate. Lasciava la sua testa vagare beata, non ascoltava le preoccupazioni. A differenza di altri che abbiamo conosciuto lei era veramente felice, anche se molti ne dubitavano.
La ragazza non dava nell'occhio, la sua felicità, una felicità sottile.
Viveva sola, in un piccolo monolocale di periferia, aveva un lavoro semplice e pochi amici, erano passati molti anni dal suo ultimo uomo. Quale contrasto con la sua esuberante sorella che viveva nella bella casa del fidanzato, villettina in centro, aveva un lavoro molto ammirato, contornata da amici cui sapeva sempre imporsi, esistenza scintillante e forse superficiale. Ma è presto per giudicare.
Torniamo alla ragazza con la fobia dei serpenti, lei era molto soddisfatta, aveva scelto quel quartiere per la tranquillità che vi regnava, aveva arredato la sua piccola casa con cura, riuscendo a farla divenire specchio di sè, il suo lavoro era una passione. Nel tempo libero si dedicava ai suoi numerosi hobby, e ai suoi amici, pochi ma cari. Allorchè un uomo giusto avesse bussato alla sua porta lei sarebbe stata pronta per aprire, non prima, e l'attesa non la disturbava.
Come avrete capito la ragazza che temeva i serpenti era una ragazza semplice, come semplice e delicata la sua bellezza.

sabato 3 novembre 2012

JACK


Jack sedeva là, ormai da mezzora, e il suo corpo tendeva ad abbandonare la tranquilla posa di poco prima per irrigidirsi, una leggera tensione nervosa lo incupiva.
Non vedeva la città da molti anni, dieci o poco meno, lì, quando era un ragazzo, non c'era un bar. Era giunto all'indirizzo, segnato dietro a quel vecchio biglietto da visita, con cospicuo anticipo, ed era entrato. Una ragazza dall'aria stanca stava lucidando alcuni calici da vino. Vino italiano. Calibrava ogni gesto, poi li allineava nella mensola alle sue spalle.
Dovrei incontrare una persona, sa se sia già arrivata?
Il tono è cortese, distante ma non distaccato.
La ragazza guardò intorno nel piccolo locale vuoto, e le venne da ridere.
Credo dovrà attendere, accompagnando le sue parole con il miglior sorriso che le riuscì. Quell'uomo attirava sorrisi, anche se, a ben guardarlo, non sembrava molto felice.
Si fece preparare un toast ben cotto e una spremuta di arancia, sedendosi ad attendere ad un tavolino, illuminato dal sole pomeridiano. Era stanco e affamato, spossato e impolverato dal viaggio, ma si sentiva ancora sereno. E sopratutto soddisfatto. Finalmente avrebbe incontrato lei, quella donna che inseguiva da molti anni, quella donna che avrebbero potuto rispondere a molti perché, quella donna che avrebbe potuto finalmente far chiarezza nel suo passato.
Arrivò la spremuta, era fresca e dissetante. Arrivò il toast, era caldo e buono, ma non gli tolse la fame; ne ordinò un secondo, scorrendo i titoli di un quotidiano locale. A Jack sembrava impossibile, tutti quegli anni di assenza e succedevano sempre le stesse cose; niente cambiato di una virgola, anche se, da come ricordava, erano molte le cose da cambiare.
Ripose il giornale e prese un pesante tomo dal borsone da viaggio. La ragazza, nel porgergli il nuovo toast, scorse una lingua strana stampata sulle pagine.
"Vieni da lontano?"
Chiese incuriosita, ma subito si pentì della domanda.
Mosca.
Evidentemente l'uomo non aveva voglia di parlare molto.
"Ma non vi sono rimasto a lungo, fino a pochi mesi fa vivevo ad Oslo."
E adesso? Lei preferì non esternare questa nuova interrogazione e tornò dietro al bancone.
Rimasero così a lungo.
Lui leggeva assorto, fino alla più insignificante cellula conquistato dalle pagine, in quella lingua assurda, lei con i suoi bicchieri, ormai tutti brillanti, lo guardava rapita. Notava il corpo di lui che iniziava a dare segni di inquietudine, sentiva l'ansia salire nei suoi respiri, ma annusava l'aroma della vita che pulsava, provenir da lui.
Un notiziario alla radio lo distolse dal suo libro, facendogli volgere gli occhi al grande orologio con le lancette turchesi.
"È giusta l'ora?"
Lei annuì.
"Allora inizio a temere di aspettare invano."
Ormai si trovava nel piccolo bar da più di un'ora. Lei non commentò nulla ma, con un singolo, semplice gesto, gli offrì una sigaretta.

venerdì 2 novembre 2012

Un tuffo a Laguna

...
Io, come sapete già, mi chiamo Pino, ma ignorate è che sono nato a Laguna, ed è normale che non l'abbiate mai sentina nominare, prima d'ora; mi sono accorto, negli anni, quasi nessuno la conosce.
Tuttavia, per capire me, e la mia storia, dovete prima capire Laguna, cosa vuol dire nascere, vivere e crescere laggiù.
Si dice che fu chiamata così perché prima era una palude, bonificata da un eroe venuto dal mare e nel mare tornato subito dopo, ma è una leggenda dei vecchi, i libri di storia non dicono niente.
Laguna è una cittadina, si snoda lungo la costa del mare più limpido che si sia mai visto, il mare in cui i tramonti sono i migliori al mondo. Laguna è più lunga che larga, solo una via principale l'attraversa tutta, da sud a nord, parallela alla costa. È interamente immersa nella campagna.
Sornione è lo strano nome del fiume che la taglia a metà, non è grandissimo, ma sul suo estuario ci hanno costruito il porto, fulcro della città.
Scusate mi interrompo, ho già sbagliato.
Io adesso vi dico tutto per benino, questo è così, quello è colà, ma, realmente, io non lo so più. Era così, era cosà. Potrebbe essere cambiato tutto, anche se ne dubito. Facciamo finta che sia ancora come l'ho lasciata io, va bene? Mi aiuta a sognare meglio. E sognare è importante.
Dicevo, il porto. Prima che lo costruissero, un vero porto non c'era. Del porto sono sicuro, anche se, neppure questo, c'è sui libri; non è una leggenda, perché c'è una grossa targa con la data e il nome di tutti gli uomini che l'hanno costruito. Prima le barche dei pescatori erano solo piccole imbarcazioni a remi, tutte in legno, che venivano lasciate sulla spiaggia, quella a sud del fiume.
Stop, altro errore, io continuo a dimenticare cose. Ma sapete, parlare di un posto come quello è complicato, e io sono un uomo semplice, lo sono sempre stato, siate buoni, magari, appena parto un poco con la storia, tutto migliora.
La prima è che il porto è solo un porto di pescatori, ma poi lì ci torniamo; la seconda è che c'è una grande differenza tra la riva sud e la riva nord. La riva sud è una spiaggia continua, granellini bianchi e finissimi, come nei film, mentre a nord, dopo il porto, o, se vogliamo, dopo la foce, iniziano le scogliere, le insenature, i golfi piccoli piccoli che saranno massimo, ma guardate esagero, cento metri, da un capo all'altro, e quelli grandi un paio di chilometri, le spiaggette nascoste, le baiettine interne, isole di sabbia grandi appena per sedersi, e via così, anche quando finisce la città e inizia la terra brulla e cespugliosa, che trovate dopo Laguna. Ci sono anche tante grotte sommerse, o mezze sommerse, a saperle conoscere, a nord; ad alcune arrivi solo dal mare, altre anche dalla scogliera, ma, di solito, da sopra, sono passaggi stretti e pericolosi, quasi mai praticabili. E poi c'è anche differenza tra chi abita su o giù, il modo nostro per dire a nord e a sud, ma questo lo dico dopo sennò ingarbuglio, a voi, e perdo il filo, io.
Sornione, il fiume, è largo un chilometro quando la strada ci passa sopra. In quel punto la strada diventa un ponte, via del Ponte Alto è chiamata, anche se tanto alto in realtà non lo è. Passato sotto il ponte, il fiume diventa porto.
Vi piace Laguna? Carina, vero?
Però, io avevo iniziato pensando di parlarvi delle persone di Laguna, adesso devo rimediare.
Noi, i Laguni, ci conosciamo tutti o quasi, almeno di vista; siamo persone semplici, viviamo con poco, legatissimi alla nostra terra, cordiali e riservati, gioviali, sempre in festa, ma per nulla, seri e laboriosi nelle nostre attività, onesti e buoni. Viviamo beati nella nostra isoletta di pace. Di pace sì, perché è così lontana da tutto che nessuno ci passa mai, così, per caso, ero per la strada e sono venuto a vedere com'è Laguna, nessuno ci viene in vacanza, cose da turismo noi non ne abbiamo, né ne vogliamo, dal nostro porto non si arriva in nessuna isola, il mare davanti è sconfinato, industrie non ve ne è, solo qualche piccola attività artigianale del luogo, ogni tanto arriva un grande camion a rifornire questo o quel negozio. Poi basta, riparte subito e noi restiamo in pace. Non è che non amiamo gli sconosciuti, solo che nessuno ha motivo di venirci, tutto qui. E noi sempre gli stessi siamo. Ogni tanto qualcuno, un forestiero, si stabilisce lì, appare dal nulla e non ha tanta voglia di parlare del suo passato, ma si rivelano tutti brava gente, alla fine, oppure altri, qualcuno dei nostri prende e se ne va, senza dire niente a nessuno. Ma anche queste sono cose rare, capitano solo una volta ogni molti anni, forse capitano da tutte le parti, non è strano, ma da noi, dato che siamo sempre quei pochi, si vede di più.
In città due cose sono importanti, la terra e il mare.
La terra, perché la campagna è piena di orti, che le donne del paese coltivano con cura, cresce di tutto in una terra fertile e amata come la nostra. Poi le primizie si vendono al mercato, o si scambiano con i vicini.
Il mare, perché è la nostra seconda terra, quasi tutti i nostri uomini sono pescatori; tornano al tramonto, con le reti cariche. Nel porto c'è uno slargo chiamato il Mercato del Pesce, ma solo dalla gente, in realtà non ha un nome vero e proprio. Funziona così. Prima che i pescatori scendano con le loro ceste, sui pescherecci salgono gli Chef a scegliere quelli più belli, servono nelle loro grandi cucine. Quello che rimane, viene venduto ai Laguni radunati. Non avanza mai niente, ma nessuno ritorna a casa senza quello che voleva.
Quasi tutta la cittadina è sviluppata a nord, il mercato, non quello del pesce, l'altro, i negozietti, le scuole, il piccolo ospedale, il municipio, le banche, la posta, i ristoranti, tutto dopo il ponte. E gran parte delle persone vivono dopo il fiume. È dopo il fiume che vengono fatte le feste, è dopo il ponte che la gente va al mare.
Prima del fiume solo poche case, quasi tutti anziani, oppure gli amanti della solitudine, della tranquillità. Se preferiscono così fanno bene, noi li rispettiamo, non ci sono distinzioni di migliore e peggiore. Lì c'è solo un bocciodromo, un centro anziani, un piccolo bar, e l'asilo nido per i bambini piccoli. Quella spiaggia, seppur bellissima, viene frequentata poco, anziani che passeggiano al mattino, coppiette innamorate al tramonto, ragazzini che giocano a calcio, incursioni veloci, rapide, solitari notturni.
Prima vi parlavo degli Chef, ma mi sono dimenticato di spiegare come mai ce ne sono così tanti, in un posto così piccolo; una delle nostre specialità sono i ristoranti di pesce. Come cucinano il pesce i Laguni, non ve ne è altrove, non potete immaginare. Ci sono ristoranti di tutti i tipi, e, siccome sono tutti così diversi tra loro, lavorano tutti, non si è mai visto uno fallire. Ci sono quelli specializzati nelle fritture, quelli nelle grigliate, quelli che propongono specialità al forno e quelli ottimi per i primi piatti. Alcuni invece si dedicano semplicemente ad assaggini sfiziosi. Poi ci sono quelli più rustici ed economici e quelli più lussuosi, ristoranti per coppiette, quelli da giovani, quelli per famiglie. Andare a mangiare pesce a Laguna era sempre un piacere, trovavi sempre quello che desideravi.
Mio padre, Gino, invece, fece un'altra cosa. Magari non aveva grande fantasia ma gli arrivò un'intuizione geniale. Lui diceva che gliel'aveva mandata il mare. Io so che non era vero, però. Era stata la mamma dal cielo. Aprì la prima e unica pizzeria.
A tutto tondo.
Divenne pizzaiolo provetto e trasmise a me la sua arte e passione.
Chi era Pino? Era il grande pizzaiolo.
Cresciuto tra farina e forno, iniziai da subito ad innamorarmi di quell'impasto grumoso che dovevi lavorare come fosse stato un bambino perché poi, se eri stato bravo con le dosi e con le mani, diventava una bella palletta tonda e liscia. Iniziai a provar piacere nel vederla crescere piano piano, sotto il panno che si gonfiava, fino a che non era della consistenza giusta. Accarezzarla nuovamente per farne diventare un bel disco schiacciato, alto tutto uguale, tutto bianco. Farla tutta bella con i condimenti, più bella non si può e poi, con la pala, sollevarla delicatamente per infornarla. Assistevo stupefatto alla magia e, se ero bravo nel tirarla fuori al momento giusto, usciva così fragrante, così profumata, così bella marroncina che non avrei mai voluta farla mangiare a nessuno, la dovevo conservare talmente era perfetta.
Amavo il mio lavoro quasi quanto il mare. Era bello, a fine serata scendere giù nella spiaggetta.
Ah sì, perché, dimenticavo, A tutto tondo era una pizzeria sul mare, avevamo una terrazza bellissima su di una scogliera ampia e una caletta sabbiosa, sottostante. Mio padre fece costruire una scalinata per accedervi, la baia era a disposizione dei clienti, se lo volevano, per un po' di tranquillità dopo cena. Io vi scendevo ogni sera.
Amavo il mare alla follia, guardarlo, entrare nell'acqua tiepida, ma, sopratutto, nuotare sotto le stelle. Questa era la cosa migliore. Niente al mondo la superava. Le stelle, il mare, la pace, la soddisfazione della serata. E io, che nuotavo tranquillo.
Per me era il massimo, davvero. Poi mi successe una cosa che mi fece cambiare idea, trovai qualcosa che amavo maggiormente.
Una sera conobbi mia moglie.

giovedì 1 novembre 2012

La cena

Lui annodò la cravatta, lei usci dal bagno che di fiore profumava.
Cara, sei pronta?
Un attimo ed eccomi.
È lui ad allacciarle gli orecchini, ed è lui a tirarle su la cerniera del vestito.
Per strada si girano, non prendiamo l'auto, ti dispiace?
Due passi, figurati.
Mano nella mano, le ombre della sera si allungano, sicura sugli alti tacchi, a suo agio seriamente vestito. Discorrono, si animano, paiono davvero felici.
La borsa che vorrei comprare.
Una vecchia chiude la saracinesca del suo negozio.
La partita di tennis di Giovedì, ti ricordi il mio collega?
Ragazzi in bicicletta, ignari del resto.
Il cucciolo che potremmo adottare.
Un ragazzo solo, aspetta ad un angolo.
Il film dove vorrei portarti.
Arrivano finalmente al ristorante, ci sono già tutti, affrettano il passo, sorridono, si scusano.
Il loro tavolo è già pronto; quello là? Sì, andiamo.
Un bracio intorno alla vita, lei è trascinata, si lascia manovrare inerte, sempre. Quest'idea che tutto succeda, ma che non sia lei a muoverlo.
Chiacchiere e risate, progetti da amici. Lui talvolta le cerca la mano, e lei allora il sorriso; invidia negli altri.
Quando a lui squilla il cellulare, un cenno, scusate, si alza, ma è breve, estremamente breve, tornato a sedersi sembra più torvo, un'impressione, si china all'orecchio di lei, lavoro, un sussurro, voce non sicuro.
Perchè mai deve dirmelo, i pensieri di lei, tra gli smalti con le amiche.
Lei ha bisogno di ritoccare il trucco, scusi mi sa dire... ma la risposta non esce da quelle labbra, solo uno sguardo che profuma d'invito, un veloce bigliettino che sparisce tra le mani. Anche lei al ritorno sembra più tesa, si è truccata troppo, pensa lui.
La torta la mangia solo lui, quella di lei, che alle labbra gli viene portata. Lampi di rimprovero alle altre fidanzate, le ragazze esasperate, ogni volta voi due ci fate litigare, tutti ridono, l'hanno detto con lievità.
Lei è stanca, per tornare a casa, lui la deve tenere stretta per la vita; comunque a piedi è voluta andare. L'eco dei tacchi nelle buie vie centrali, solo loro sotto la luce dei lampioni. Un gatto spelacchiato nemmeno alza la testa, la stanchezza degli anni gli ha intrigato i baffi.
Continuano a parlare, di questo, di quella, del weekend, delle vacanze, della festa cui andranno e quella che vogliono organizzare.
Però lo prendiamo un cane, vero?
Casa, arredo a nuovo. Si sono divertiti a sceglierlo insieme. Lei è stanca, crolla sul letto; lo stesso letto scelto da lei ma che le arreca un senso di estraneità.
Lui accende la televisione, la sua vita potrebbe essere uno qualunque di quei programmi. Uno vale l'altro.
Si addormentano quasi nello stesso momento, tuttavia felici.